House of Gucci
Nell'anti-melò di Ridley Scott le passioni scompaiono, sostituite da manichini di plastica e occhi(ali) senza volto. Cerebrale e coerente: ma vincere l'Oscar così è dura.
Mai come nel caso di Ridley Scott un corpus cinematografico di tale successo commerciale ha saputo sacrificare ogni barlume di sentimento a una concezione ostinatamente teorica delle immagini spettacolari. Un paradosso ragionato, che in House of Gucci diventa centrale nella lettura di un prodotto altrimenti incomprensibile.
Negli anni dei Duellanti, Alien e Blade Runner, l'inglese fu uno dei primi autori per i quali si sprecò l'etichetta di "nuovo Kubrick": e nel comune sprezzo nei confronti di ogni apertura all'identificazione empatica, i due hanno effettivamente molto in comune. Come Kubrick osservava i propri personaggi alla stregua di un biologo chino su topi di laboratorio persi in labirinti e geometrie visuali, così gli eroi di Scott sono sempre gli automi, i mostri, al servizio di una ricorrente poetica del falso, dell'artificiale e dell'inumano. Un cinema senza nulla di popolare, e che pure riesce a esserlo – e che ora non può che guardare al melò con lo spirito beffardo dell'ingiuria.
Le imitazioni di tragedie reali come copie di plastica: House of Gucci insiste su questa idea di falsità, di finitezza dello spirito umano a favore di... cosa? Del post-umano? Del rettile? Dell'automa? Gli antieroi di casa Gucci sembrano ancora una volta androidi inconsapevoli, non persone quanto burattini ridicoli di un mondo laccato, che ostenta l'artificio come una quinta di teatro (o un set fotografico d'alta moda). Maschere calate sul nulla, fasulle a partire dai tanto vituperati accenti (peraltro non malaccio, nel caso di Lady Gaga): mai ci si dimentichi di guardare un film di impostori, di facciate. La sua dimensione è il camp: oggetti tarocchi, colori irreali, volti irreali coperti da occhiali da sole a specchio – che la stessa Patrizia tenta invano di strappare dal volto impassibile di De Sole/Huston, al culmine del gioco al massacro finanziario da lei scatenato: guardami negli occhi!, urla, ma dietro le lenti non c'è nessuno. Il pathos delle tante scene madri è farlocco, lo score sostituito da smitragliate di canzonette da juke box, l'Italia anni '80 dalla sua parodia vanziniana. Ecco, si palesa forse qui il gioco intellettuale di Scott: un film meta-vanziniano, elaborazione semitragica di quella weltanschauung cafonal-milanesoide dalla quale eredita personaggi, gag, ma non l'ironia necessaria a inquadrarla.
Ironia no, ma neanche pietà, o semplice disprezzo. Se House of Gucci non funziona sul piano dello spettacolo (e purtroppo è innegabile) è proprio a causa di questa sua incapacità di scuotere la propria premessa teorica, evolvere un impianto formale interessantissimo (come sempre in Scott) in film compiuto. Il melodramma vive delle proprie passioni: ma questo non è un melodramma, si dirà, ne è il simulacro kitsch da mercatino. Eppure il film non è neanche davvero satirico, lanciato semmai sul piano del sarcasmo acido nella mascherata da Divo sorrentiniano di Paolo Gucci-Jared Leto: la sua criticatissima interpretazione non è sbagliata in sé, anzi – è semplicemente fuori fuoco rispetto all'intensità invocata dai due splendidi protagonisti, e disattesa da un film che non vuole prenderli sul serio. Maurizio/Driver e Patrizia/Gaga, bontà loro, sembrano convinti di recitare un Padrino dell'haute couture: ma il film intorno a loro è piuttosto il Zoolander di un regista che non fa ridere.
Bella fregatura per la povera Germanotta: tre anni in attesa del progetto-Oscar della consacrazione per poi finire in mano a un sornione ottantenne britannico, misantropo e bastardo dentro, capace di sabotare (volontariamente?) il dramma sentimentale che pubblico e critici americani si aspettavano, e che avrebbe facilmente portato la diva al trionfo. Al contempo, House of Gucci è però troppo freddo per alzare i toni del grottesco, ed evocare quel senso di vanità assoluta soltanto teorizzato. L'eroina (?) Patrizia Reggiani resta dunque una protagonista involuta, tra lampi di dolcezza (l'inizio in chiave screwball comedy, con la cinica arrampicatrice che prova a sedurre il tonno Maurizio – ma c'è vera attrazione, già lì?) e un lato farsesco che non vuole esprimersi: un po' spietata femme fatale, un po' #girlboss vendicatrice di torti lavorativi maschili, nel mesto finale anche moglie pasionaria in lacrime. Di coccodrillo? C'è qualcosa di vero, o era tutto tarocco? Stavolta non l'ha capito neanche Scott: i suoi androidi hanno ingannato anche lui.