The Passage
Il viaggio, la morte, la speranza, il paesaggio texano. L'esordio di Roberto Minervini.
Trilogia texana, capitolo primo. Il passaggio. Da dove a dove, da cosa a cosa? Forse non per tutti di mondo ce n’è uno solo. Non per Ana, che anche di fronte a una radiografia che non lascia illusioni, non abbandona la fede. È lei la protagonista dell’esordio di Roberto Minervini - assieme crudo e dolce, asciutto e commovente - una donna che sta per morire e assolda un ex detenuto, conosciuto per caso al supermercato, per essere portata da un curandero. Sulla strada incroceranno un autostoppista sedicente artista, abbandonato dalla donna che amava, che li accompagnerà in questo doloroso e confuso girovagare dove il tempo non è più quello dell’orologio, ma quello vero, quello che concede la vita.
Attraverso gli occhi del regista l’evidenza della morte, brutale, si fa gesto: mettere tre confezioni di gelato nel carrello e accendere un’altra sigaretta, perché ormai non cambia più nulla. Desiderare di rivedere un’ultima volta la montagna, farsi strada senza fiato lungo un pendio scosceso, concedersi un bagno nell’acqua fangosa e sorridere per riconciliarsi definitivamente con il mondo: questa è Ana. Il Texas è calura soffocante e orizzonti lontanissimi, strade ampie, deserte e silenziose che invitano al viaggio. Si può essere a corto di soldi, di amore o di speranza: la società riconosce sempre i suoi (de)relitti come corpi estranei e li rigetta brutalmente a riva. Il cinema di Minervini nasce da qui, nasce per raccogliere questo movimento, questa disperazione, questa realtà che scotta ed è così ardua da maneggiare.
Man mano il suo linguaggio scarno si è fatto più raffinato, più rarefatto; The Passage forse non ha fatto ancora sua quella poesia della piccole cose che permea il successivo Low Tide - tormentare un insetto, carezzare un serpente, raccogliere la pioggia in un vaso da fiori - e deflagra poi meravigliosamente in Stop the Pounding Heart - che possiede una potenza espressiva pittorica senza per questo rinunciare alla ruvidezza della realtà (un connubio raro). Eppure Minervini è già tutto qui: nello sconfinamento audace e spaesante tra documentario e finzione, nel respiro corto della macchina da presa che sta addosso a corpi sempre più feriti e lacerati, nello sguardo sul reale sempre così diretto e sfrontato, eppure, paradossalmente, empatico, delicato e a volte quasi imbarazzato per l’intimità che gli si offre tanto gratuitamente. E come in un segreto gioco di rimandi e cortocircuiti i personaggi di questa trilogia texana sembrano rincorrersi e sfiorarsi vicendevolmente di film in film: gli allevatori di capre che Ana incontra in The Passage sono al centro di Stop the Punding Heart, che racconta della giovane e bionda Sara che conosce Cody, ragazzo che ama cavalcare i tori, come lo vediamo fare di sfuggita anche in Low Tide, osservato dal piccolo protagonista, stretto tra il proprio legittimo bisogno d’amore e la necessità di occuparsi di una madre che non sa e non vuole essere tale.
La sensazione perturbante che viene fuori da questa tessitura fitta di intrecci e legami è la certezza che quel mondo che il regista filma continui ad esistere oltre i confini dell’inquadratura, prima e dopo i film, che altro non sono, in un certo senso, che brevissime finestre temporali aperte e poi richiuse su una realtà in atto, che è viva e muta e si evolve in continuazione. Allora lo spettatore non è più quello per cui viene pensato e scritto il racconto, ma piuttosto qualcuno che ha - per un tot di tempo che viene stabilito al montaggio - il privilegio di sbirciare altre vite, altri luoghi, altri cuori in affanno. Senza però che tutto questo diventi mai legge né dogma: perché, ad esempio, la Ana di The Passage è un’attrice (Soledad St. Hilaire), mentre la Sara Carlson di Stop the Pounding Heart interpreta più o meno se stessa.
Al netto delle questioni sull’ontologia del cinema – le stesse che solleva, poniamo, l’interessantissimo lavoro di Jonas Carpignano, che al pari di Minervini vive dall’interno e in modo continuativo l’universo che filma – il regista firma da subito, con The Passage, una dichiarazione di intenti: il punto primo, quello essenziale, è la capacità e la volontà di una messa a nudo che sia irreversibile e totalizzante. Messa a nudo che appartiene ai protagonisti - che urlano silenziosamente la loro dignitosa disperazione - al cinema come medium - che qui è ridotto a un grado zero, a un occhio che registra e, tuttavia, al contempo patisce con e per i suoi attori e non attori – e infine allo spettatore, che guarda in certi abissi (la morte, l’amore, la solitudine) come in uno specchio.