In alcuni casi dar vita ad un remake o addirittura ad un reboot diventa un’operazione prima politica e poi, sicuramente, anche commerciale. Metter mano ad un immaginario così ben codificato e così ancora potente come quello degli anni ’80 significa dover fare i conti con una grossa fetta di pubblico trans-generazionale, ancora molto legata a film tutt’oggi di successo (nel senso che continuano a venir programmati nei palinsesti televisivi, a generare nuovo merchandise, etc.) Il RoboCop del 1987, girato dal mai abbastanza celebrato Paul Verhoeven, è, come buona parte della filmografia del regista, un’opera profondamente iconoclasta e tagliente che propone contenuti ed immagini dure da digerire mescolate abilmente con soluzioni di messa in scena preposte a titillare le corde sensibili del grande pubblico. Le sue frecce satiriche colpivano, giocando con gli stilemi della distopia, un’America filo-reaganiana: una Detroit dove la polizia è privatizzata, dove il crimine è alle stelle, in cui le multinazionali speculano a piacimento e a scapito della vita e della dignità della popolazione.
Verhoeven si scagliava contro le storture di un sistema per lo più ancora intatto: gli squilibri dell’assistenza sanitaria, della libera impresa, del consumismo spinto all’eccesso e dello stra-potere dei mass media. La caricatura dell’entertainment televisivo statunitense era il primo passo di ciò che sarebbe poi sfociato nei cinegiornali di propaganda nazistoide di Starship Troopers: demenziali telegiornali in cui abbronzati e sorridenti mezzibusti snocciolano con compassata nonchalance notizie catastrofiche, grottesche pubblicità e siparietti di dubbio gusto. Il RoboCop originale era una sorta di versione “europea” (perché lo sguardo europeo e giudicante del regista si sente eccome) dell’Essi vivono carpenteriano, un film mainstream, pensato per la grande diffusione, ma con una quantità incredibile di violenza e di sottotesti sovversivi.
Il RoboCop da poco nelle sale e firmato da Josè Padilla (e sottolineiamo “firmato”, perché ad ammissione dello stesso regista, sul set non aveva quasi voce in capitolo) purtroppo rappresenta ben più di una grande occasione mancata. E questo perché il film in questione, oltre a non presentare nemmeno il 10% della potenza cinematografica del modello originario, pecca proprio nel suo disinnescare la carica satirica, pessimistica e sociale dell’opera di Verhoeven. Questo RoboCop poteva quantomeno rappresentare l’occasione perfetta per aggiornare l’accusa ad una civiltà occidentale oggi sempre più schiava di tecnologia omnipervasiva, e sempre più sottomessa al costante bisogno di “aggiornamenti”. Invece tutto si risolve in una versione edulcorata del film dell’87, in cui c’è meno violenza, meno critica ai costumi del paese, meno azione e – cosa in definitiva più grave – meno cinema.
Ogni timido tentativo di shockare lo spettatore (come la riuscita scena del risveglio di Murphy, in cui il poliziotto si ritrova ad essere soltanto “una testa ed una mano” in un corpo sintetico, efficace metafora dell’uomo contemporaneo che vive in simbiosi con il computer, la cui interfaccia richiede ipoteticamente solo una testa e una mano per cliccare) viene immediatamente stemperato da sequenze prive di alcuna carica emotiva, complici inoltre di spezzare costantemente il ritmo del film. Il fatto che le icone degli anni ’80 (di certo la decade in cui il cinema pensato per il grande pubblico riusciva ad essere anche il cinema più “politico”) vengano da almeno dieci anni saccheggiate e “depotenziate” è l’ennesimo sintomo grave dello stato comatoso dell’industria cinematografica statunitense, incapace di dar vita ad un nuovo, esclusivo immaginario, timorosa di rischiare e, a questo punto, anche un po’ revisionista.