Dossier Paul Verhoeven / 13 - Black Book
Il film sull’Olocausto di Verhoeven è una falsa pista che rende la memoria un macguffin per costruire un meccanismo di genere, una sontuosa danza di apparenze senza sguardo etico né problemi di gusto.
Paul Verhoeven torna in Olanda. Dopo vent’anni di frequentazione hollywoodiana, Black Book è il film che segna il rientro del regista nel suo paese: girato sei anni dopo L’uomo senz’ombra, fu presentato in concorso al Festival di Venezia 2006 e accolto dal malinteso critico che vede nel racconto una traccia di revisionismo.
Aprendosi sulla protagonista dopo la guerra, la storia si dipana in un lungo flashback: siamo nel settembre del 1944, Rachel Stein (Carice Van Houten), cantante ebrea che si esibiva prima del conflitto, scappa dalla Germania all’Olanda insieme alla sua famiglia. Quando il nucleo viene intercettato e sterminato dai nazisti, Rachel riesce a sopravvivere ed entra in contatto con la resistenza: suo compito sarà sedurre il capo della sicurezza delle SS Ludwig Müntze (Sebastian Koch) e sferrare un colpo decisivo ai nazisti nei Paesi Bassi. Per farlo cambia nome: si chiamerà Ellis de Vries...
Il film sull’Olocausto di Verhoeven è una falsa pista. “Ispirato a fatti realmente accaduti”; la didascalia iniziale suona come una provocazione: da subito l’autore imbastisce una tavola di travestimenti e doppi giochi, che non risponde alla realtà ma alle regole di genere. Così l’agente della resistenza disegna la sua ombra sul vetro, come in un noir classico, e così Rachel per restare viva si finge morta e giace “cadavere” nella bara, inganno che tornerà alla fine a parti inverse. Si innesca una danza delle apparenze, precisamente teorizzata dal disclaimer pronunciato da un personaggio («Fidarsi ciecamente non è di questi tempi»): Rachel diventa Ellis (una magnifica Van Houten, al colmo della sensualità e ambiguità), ebrea infiltrata tra i nazisti, i resistenti si scontrano con i tedeschi ma ad ogni opposizione binaria si applica un possibile viceversa. Verhoeven e lo sceneggiatore Gerard Soeteman rivoltano, confondono, seminano sospetti. Da che parte sta chi e dov’è la verità, per 135 minuti, non è dato sapere: tutti mentono sempre, nemici e alleati, per vincere la guerra o a scopo precauzionale, ma col medesimo risultato di occultare la realtà e propagare la menzogna. Non importa della Storia: importa solo costruire il puzzle, tassello su tassello, metaforizzato in quello che Rachel/Ellis compone con le foto di famiglia per dimostrare la sua reale identità.
Il regista, come uso, ripassa lo stereotipo e sabota l’ovvio: la donna da rossa diventa bionda e si tinge anche il pelo pubico, in un trucco inutile che verrà presto scoperto, fine a se stesso, uno scherzo sublime che si consuma nello spazio sfacciato di un’inquadratura vaginale. Il film sulla memoria diventa ingranaggio impazzito e si rigira continuamente su di sé, trasformandosi di volta in volta in thriller, spy movie e perfino action: per mescolare il calderone Verhoeven respinge lo sguardo etico, non si pone problemi di gusto, bada solo allo spettacolo. Basti pensare alla sequenza che porta alla scoperta delle armi alleate: la messinscena “sfrutta” i bambini affamati dalla guerra, che assaltano un camion di viveri rivelando nel doppiofondo un carico di fucili. Le ombre della Storia diventano pretesto per far splendere il cinema. E questa indifferenza al giudizio morale di chi guarda sfiora, a tratti, il sublime.
Quando una posizione etica dei personaggi emerge, sempre per cenni, questa è evidentemente minoritaria e chiusa in poche battute, mai esposta e piuttosto segnalata dal tono del grottesco (si pensi alla figura del nazista Günther Franken interpretato da Waldemar Kobus: repellente, lombrosianamente “brutto”). Tutto resta questione di strategia: anche gli attentati e i morti incrociati, laddove il nemico non si può giustiziare per timore di rappresaglie. E d’altronde c’è una chiara prova narrativa sul pensiero di Verhoeven nel costruire questo film: alla fine della guerra, sconfitti i nazisti, nell’Europa liberata, il gioco delle apparenze continua senza sosta. Dopo il 1945 Rachel/Ellis è sempre in fuga, nessuno è ancora ciò che sembra: l’inganno non era nella Storia, era dentro il meccanismo cinematografico e per questo può ricrearsi in loop idealmente infinito.
Verhoeven sfida il moloch più importante della forma narrativa contemporanea, il racconto della Shoah. E rende la memoria un MacGuffin, pretesto hitchcockiano per innescare il genere: Black Book non sembra Il pianista ma un film di De Palma, con maschere, doppi, estenuanti twist della trama. Lo spettatore è stremato nel dubbio fino alla fine, in un’operazione stilistica simile a quella appena condotta da Zemeckis in Allied, ma senza la “grande sfida” verhoeveniana. Perché il sabotaggio qui è un atto radicale, che sta all’Olocausto come allo stereotipo della donna abusata che si rivela consenziente nell’ultimo Elle. Il film sulla memoria si rivela macchina del divertimento. E il punto è tutto nel congegno: nel topos della scena di sesso tra un nazista e un’ebrea, dove al posto dell’erezione c’è una pistola. Ovvio che fu respinto dai benpensanti, però Black Book lascia ancora ammirati per il coraggio e l’estremismo, per l’addensato di cinema puro che non guarda in faccia a nessuno. Lesa maestà verso la Storia? No, piuttosto sacro rispetto per l’occhio del pubblico, dichiarazione di essenza che non risponde al reale ma solo a se stesso e a chi osserva. È un film di genere, è facile da amare: basta lasciarsi ingannare.