Roma 2012 / Alì ha gli occhi azzurri

Ostia è una zona di confine fra terra e mare. Ma è anche un luogo antropologicamente liminare, dove residui umani sottoproletari hanno da decenni trovato la loro prigione marittima, la loro ambasciata classista. Lì sopravvivono quei luoghi umani raccontati da tanti autori italiani, da Pasolini a Verdone, vale a dire quel sottoproletariato tragico e dal volto umano, coatto e bonariamente devoto. Ma Ostia, col suo humus sociale, è anche una zona di frontiera: lì questo magma umano è tirato da due forze uguali e contrarie. Da una parte la forte e secolare tradizione sottoproletaria romana li inquadra ancora come gente genuina, ingenua e amorevole. Dall’altra il tempo pretende il suo dazio e il cinismo imperante vorrebbe spezzare in loro quell’aura di autenticità e amabilità per insinuare il virus della freddezza, della sopraffazione e della violenza, a ribadire quel concetto tante volte espresso da Carlo Verdone quando afferma che i coatti di un tempo non vi sono più, e di come Oscar Pettinari di Troppo forte sia stato rimpiazzato da quel volano umano rappresentato da Fabrizio Corona e i suoi simili. In questa tensione fra passato e futuro, fra posizioni caratteriali e ideologiche agli antipodi, vive oggi un mondo limbico, trattenuto e strattonato da queste forze antitetiche, indeciso e forse ancora impreparato nello scegliere un percorso anziché un altro.

Questo mondo è quello narrato da Alì ha gli occhi azzurri, prima opera di finzione di Claudio Giovannesi, documentarista che aveva fatto parlare molto si sé per il suo importante Fratelli d’Italia. Dal suo precedente lavoro documentario Giovannesi prende le mosse e ricrea quasi letteralmente quell’universo riproponendolo finzionale: anche qui protagonista dell’opera è l’Ostia multiculturale e in particolar modo gli immigrati di prima generazione, giovani adolescenti nati e cresciuti nel nostro Paese ma da genitori stranieri che conservano ancora forte in loro la cultura di provenienza. Su queste idiosincrasie si fonda la storia e l’esistenza di Nader Sarhan, già incontrato in Fratelli d’Italia che qui sacrifica il suo mondo alla simulazione cinematografica, proponendoci la sua famiglia egiziana e islamica e le difficoltà che essa incontra nell’educare Nader stesso, troppo italiano per accondiscendere ad alcuni costumi familiari. Nader ha una fidanzata e sogna una vita “normale”, del tutto occidentalizzata. Contro questi voleri la sua famiglia egiziana e islamica dice no: il fidanzamento e il sesso fuori dal matrimonio è peccato mortale. Lo scontro di civiltà è fortissimo e Nader scappa di casa, volontà emancipatrice che però lo farà scontrare con la ruvidezza di Ostia e dei suoi abitanti, per una multiculturalità che prova la sfida dell’interculturalità.

Presentato in Concorso, Alì ha gli occhi azzurri è un’opera di altissima fascinazione, profondamente innamorata e impaurita al tempo stesso dal/del reale. In una Ostia post-pasoliniana che conserva ancora alcuni segni delle decadi addietro in maniera ineludibile e tragica come la Berlino post-DDR, i ragazzi compiono le loro esistenze inconsapevoli del fatto che ad Ostia si stia giocando una partita fra le più importanti per l’Italia tutta, fatta di razzismo, interculturalità, lotta di classe, criminalità e nuovi assetti culturali. Dell’esito dello scontro ne gioverà – o ne farà le spese – buona parte della comunità italiana, che dal quel crocevia marittimo che Ostia rappresenta prenderà le mosse per giudicarle, respingerle o farle proprie. Questa partita inconsapevole (ma che tutti noi giochiamo per il solo fatto di stare al mondo) è nelle mani di Nader e del suo migliore amico Stefano, dei loro genitori, dei loro fratelli e dei compagni di scuola. Nonché della risposta popolare e cittadina, istituzionale, fatta più di assenze che di presenze. Per il momento a pagare sono solo Nader e Stefano, ma la risultante antropologica e sociale che ne scaturirà pretenderà il suo tributo nazionale.

In un’Italia che da troppo tempo sta temporeggiando, e malamente, sulle sfide multiculturali che questo nuovo millennio le pone dinnanzi (il reato di clandestinità è stato da poco redatto e approvato) Alì ha gli occhi azzurri svolge il ruolo della migliore arte sociale, cioè quello di interrogarsi sul presente e vivacizzare o creare una discussione, al fine di intavolare ragionamenti che renderanno dignitosi dei luoghi di diritto – e umani – che ancora non lo sono. Claudio Giovannesi nel suo salto dal documentario al cinema di finzione compie una parabola perfetta: rigorosa, intellettuale, ideologica e che sa trattenere in sé e riversarli a beneficio dello spettatore le bellezze e gli orrori di Ostia, crocevia umano e geografico liminare unico e archetipico.

Autore: Emanuele Protano
Pubblicato il 22/01/2015

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