Roma 2012 / Drug War

Siamo nella campagna cinese, sullo sfondo vediamo i fumi delle fabbriche alzarsi verso il cielo e confondersi con le nuvole. Una macchina sbanda pericolosamente: l’uomo che ne è alla guida sta male, vomita, non riesce a mantenere il controllo. Una, due, tre sterzate fino all’incidente: la macchina si schianta contro le vetrate di un negozio. La gente accorre a vedere cosa è successo. Nell’incipit dell’ultimo, straordinario film di Johnnie To sembra di rivedere l’Accident di Pou Soi Cheang (di cui non ha caso il maestro di Hong Kong è produttore con la sua Milkyway): anche lì un incidente apriva il film mostrando la variabilità e l’assurdità del caso che non può in alcun modo essere addomesticato. In Drug War succede esattamente la stessa cosa. Il dipanarsi del film segue delle traiettorie che all’inizio sembrano sempre imprevedibili, come nel caso della bellissima sequenza al casello.

Il magma quasi indistinto di azioni e personaggi che attraversano lo spazio però si scioglie mostrandosi trasparente nella sua chiarezza. La struttura e il caos: ad ogni vertiginosa svolta che spinge il film ogni volta in un set diverso (il casello, l’ospedale, l’albergo, il porto, il treno) corrisponde lo sviluppo di articolate geometrie che dopo essersi compiute e mostrate in tutta la loro evidenza, implodono negando allo spettatore il piacere del controllo. Drug War mette in scena proprio quei limiti del controllo solo annunciati da Jarmush: tutti i personaggi si sforzano di entrare nei panni dell’altro, di recitare ruoli diversi dal proprio, di creare e definire un set nel quale mettersi in scena, eppure c’è sempre qualcosa che sfugge, che manca. Che sia la risata isterica di Fra Haha, l’identità multiforme di Zio Billy, il tunnel segreto utilizzato dai fratelli sordo-muti o quella manetta che improvvisamente si trova legata alla gamba di Tommy Choi, vi è sempre un elemento che resiste alla ragione. E per quanto i protagonisti si sforzino di appropriarsene ci sarà sempre qualcos’altro che mancherà all’appello.

La sparatoria finale alla Peckinpah (che, come ha notato qualcuno, può essere letta tanto come un gesto liberatorio dello stesso To tanto come una concessione ai fan) porta fino alle estreme conseguenze questo discorso sul controllo, mostrandone il definitivo fallimento. Al contrario di un regista come Nolan, fine architetto del nulla, Johnnie To fa e disfa a proprio piacimento, riuscendo ad erigere ogni volta una magnifica cattedrale sventrata dall’interno o bucata dai proiettili. Il piacere della visione deriva dal continuo desiderio che questi vuoti attivano: ogni gesto, ogni azione porta con sé una sorpresa, un’eccitazione diversa. E non ci si stanca mai di vivere il film in prima persona. Quando pensi di aver già visto tutto e che il cinema è ormai morto arriva Johnnie To a sorprenderti con una nuova epifania. In una sola parola: immenso.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 22/01/2015

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