Luci, imballaggi, colori sfavillanti e rombo di saracinesche. Azione! I grandi magazzini di Parigi aprono le porte. Al loro interno, una folla mista di adulti e bambini sono pronti a soddisfare i propri desideri inneggianti al materialismo e al consumismo, sotto la ferrea supervisione della gerarchia, del denaro e della meccanizzazione. Tuttavia, si sa, quando c’è Monsieur Malaussène nei paraggi il gergo dell’ordine si confonde al caos e l’automatizzazione va a farsi benedire. Lui è Benjamin Malaussène, professione capro espiatorio.
Il protagonista de Il paradiso degli orchi di Daniel Pennac, primo romanzo del ciclo a lui dedicato, passa dalle pagine allo schermo, materializzandosi, in anteprima mondiale al Festival del Film di Roma, nel corpo di Raphael Personnaz, la cui goffa dolcezza si dipana dallo sguardo azzurro ai modi garbati, senza che l’ingenuità propria del personaggio ceda mai all’imbarazzo dell’idiota. L’ironia che informa le righe del romanzo riescono a propagarsi anche nella configurazione visiva del mondo creato dal regista Nicolas Bary, lasciando spazio a quella giusta dose di follia che si coniuga opportunamente ad un universo stravagante e visionario. Lo sfarzo dei colori e le luci accecanti disegnano un paese dei balocchi che è cornice di una storia quasi surreale, dove le giraffe prendono vita, le pareti vacillano in esplosioni bizzarre e l’umanità si sclerotizza in facce da manichini. Solo qualcuno resta immune al sortilegio e, proprio per questo, rischia la pelle. Benjamin solo in casa assolve al compito di eroe, nei racconti creati ad hoc per i suoi fratelli in cui combatte e sbaraglia il dinamismo ingestibile della realtà rarefatta dei grandi magazzini, dove anche gli orchi si risvegliano. E gli danno la caccia.
Così, tra una fuga e un interrogatorio, una presenza all’Ufficio Reclami in cui si lascia urlare addosso dalla clientela imbestialita e qualche incidente di percorso fatto di vetri in frantumi e porte che sbalzano, Benjamin passa le giornate a tentare di dare un ordine alla propria famiglia: ci sono la giovane Louna rimasta incinta a sorpresa, l’adolescente Therèse, esperta in tarocchi, il genio criminale Jeremy, sempre pronto a sperimentare nuovi fantomatici ordigni esplosivi, il più piccolo, che disegna il Natale sotto uno spirito apocalittico e con l’apparecchio per l’udito che spegne nei momenti di maggiore confusione, e il cane Julius, che dorme, sporca e non vuole saperne di mangiare i fagiolini. Colpo fatale, l’incontro con una rossa Berenice Bejo, subito battezzata “Zia Giulia”, in ordine ad un mondo fatto di sogni e familiarità, una giornalista che insieme al suo scoop trova anche l’amore. L’unica in grado di mediare le dimensioni parallele abitate da Benjamin, in bilico pericolosamente tra l’ambientazione moderna e artefatta dell’esterno e la realtà privata e personale, quella dove si dorme a terra perché non ci sono abbastanza letti, dove la presenza materna è veicolata solo da un metallico ricevitore e dove i neonati possono dormire nei cassettoni dei mobili.
Dopo quasi trent’anni dall’uscita del libro di Pennac, finalmente lo schermo impazzisce dietro (e dentro) una Parigi bombardata di suoni, rumori ed effetti ottici, resa ancor più vibrante dal ruvido contrasto tra gli interni moderni e abbaglianti dei grandi magazzini e gli esterni carichi di tetra pioggia, nera come la notte.
Nell’attesa del successivo capitolo della saga, La fata carabina, si resta attoniti davanti all’impresa di trasfigurare visibilmente il mondo descritto dall’autore, un’impresa che Bary supera con maestria ed intelligenza, garantendo respiro a (quasi) tutti gli elementi che la penna è riuscita a descrivere. Allora appare evidente lo sforzo di coniugare la commedia ad atmosfere thriller, con un sottile velo di umorismo che pregna ogni cosa, dai brillanti dialoghi alle scenografie, dai toni di luce alla realizzazione dei personaggi, che anche nei loro brevi passaggi in questo mondo fittizio, rifuggono costantemente dalla stereotipia delle macchie.