Come ossa di un gigante caduto, sorgono tra gli alberi le trenta palazzine del Villaggio Coppola, costole spezzate e in via di decomposizione di un’enorme creatura morta anni fa e collassata sul terreno, resti di un progetto, di un’idea, di un sogno promesso e iniziato e poi lasciato morire. Ma questa carcassa è abitata, nella polvere di ossa vivono e resistono persone, famiglie, che a tale scheletro in pezzi si aggrappano ancora, lo occupano e riparano, per cercare di costruirci quell’esistenza che non ha trovato in nessun altro luogo la possibilità di esprimersi. Sono rifugiati ma anche occupanti abusivi, sono un’umanità viva e variegata che però per lo Stato non esiste. Sono gli abitanti di ciò che resta del paradiso artificiale del Parco Saraceno.
Prodotto da Rai Cinema e dalla sempre attiva e mai troppo lodata Figli del Bronx di Gaetano Di Vaio, Ritratti abusivi parte con super8 d’epoca proprio dalle promesse, dai sogni annunciati e venduti che poi si sono trasformati in incubi, belle villette sul mare che diventano carcasse derelitte, una condizione verificatasi più di dieci anni fa e da allora in costante peggioramento. La storia della comunità abusiva del Parco Saraceno nasce negli anni sessanta, quando per raccogliere i militari Nato operanti a Napoli fu costruito un villaggio turistico pensato per ospitare tanto le famiglie americane quanto l’alta borghesia della zona. Invece di diventare un florido polo turistico il villaggio però precipita nel caos quando gli uomini della Nato vengono dislocati altrove, e da lì inizia una storia di degrado e occupazione abusiva i cui protagonisti vivono ancora oggi, nell’intervallo di esilio di chi è sia illegale che invisibile per lo Stato. E nel frattempo la promessa di un porto turistico che inizi a risanare la zona viene reiterata di anno in anno, elezione in elezione, senza che vi nasca nulla di concreto. Ma tutto questo non è il vero oggetto del bel documentario di Romano Montesarchio, la cronistoria del Parco emerge solo a frammenti dai racconti degli attuali abitanti abusivi, una sessantina di famiglie che ancora oggi vivono in quel luogo fatiscente e deserto, abbandonato tanto dallo Stato quando dalla Camorra.
Come annunciato dal titolo, Ritratti abusivi intesse le testimonianze e gli sfoghi di alcuni di questi abitanti, raccontati da un impianto documentaristico classico e rigoroso, molto canonico ma puntuale nel connettere tra loro le varie anime della comunità. L’obiettivo di Montesarchio infatti non è informare lo spettatore del’accaduto quanto accompagnarlo per la mano nei vicoli e nelle macerie del Parco, a scoprire come anche in condizioni così disagiate un gruppo di persone sia stato capace di creare una piccola comunità. Tuttavia Ritratti abusivi non sembra esaurire tutte le sue potenzialità, specie considerando il fertile soggetto scelto; il problema sta nel minutaggio troppo breve e in quella canonicità di approccio che se permette a Montesarchio di portare avanti il racconto con mano salda, dall’altra ne limita comunque la portata complessiva. Le piccole comunità sono un coacervo di rituali, prassi, tensioni, e sarebbe stato interessante vedere un racconto capace di osare e spingersi a fondo in tali dinamiche, invece così poco esplorate. Dove però Montesarchio ha agito bene è sicuramente a monte, nello stringere rapporti con gli abitanti del Parco, arrivando ad una confidenza che gli permette di raccogliere testimonianze importanti e sentite. Come nel migliore dei casi gli intervistati diventano così i veri protagonisti del lavoro, attivi nel conquistare e possedere la macchina cinema per potersi finalmente sfogare. La cinepresa così arriva a sublimare quell’interlocutore pubblico che non hanno mai avuto, a farsi portatrice del più umano dei diritti, quello di raccontarsi.