
Le premesse sembravano scontate: ripartire dal penultimo film (Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma), andare indietro nel tempo fino alle origini del personaggio, raccontare i suoi primi passi nella capitale imperiale, e poi un nuovo mistero da decifrare, una nuova missione da compiere. E invece ci siamo trovati di fronte a qualcosa di inaudito, una vera forza della natura che non assomiglia a nient’altro. Non c’è niente da fare: Tsui Hark è sempre avanti rispetto agli altri. Quando pensi di averlo compreso fino in fondo, e di poter anticipare le traiettorie, ecco che arriva con un nuovo film a scompaginare tutto, a travolgerti con la sua potenza inarrestabile, che procede senza sosta lungo le oltre due ore di durata. Forse è anche per questo che molti fan del primo capitolo sono rimasti delusi: la linearità, comunque spericolata, del capitolo precedente qui cede il passo ad un magma di immagini che sembrano assediare lo spettatore, sorprenderlo con prospettive inedite, movimenti vertiginosi, svolte imprevedibili. L’inizio è da capogiro: neanche il tempo di ambientarci che Tsui Hark ci scaraventa al centro del mare, dove la flotta dell’imperatrice attende l’arrivo di un misterioso nemico, che assume ben presto le fattezze di un mostro marino gigantesco. Come i marinai, anche gli spettatori scrutano l’orizzonte, attendendo i segnali della minaccia, che invece si materializza lì dove nessuno se lo sarebbe aspettato: sotto i nostri piedi, dal fondo dell’oceano. Siamo presi in mezzo, travolti dalla forza ancestrale della natura che sommerge navi e persone. Sembra di intravedere il Cameron di Titanic – i plongée che scrutano il baratro e che sembrano schiacciarci giù sotto il peso della gravità – ma con in più quello spirito intimamente musical – che appartiene a tanti grandi autori orientali – che spinge la macchina da presa a rompere lo schema verticale e a disperdere i corpi in tutte le direzioni, come una lunga coreografia sanguinaria fatta di volteggi, capriole e salti mortali.
È il set a stabilire come sempre l’andamento narrativo, i movimenti nello spazio. Se nel primo capitolo tutto si svolgeva all’ombra del cantiere della statua di Buddha da erigere in onore dell’imperatrice – uno spazio lineare, fisico, concreto nella sua monumentale imponenza – qui è l’oceano il luogo predefinito. Uno spazio per costituzione cangiante, fluido, che impone per forza di cose nuove coordinate. Dal mare si origina la minaccia mostruosa, così come il piano nemico che mira ad avvelenare i sudditi di sua maestà, non a caso con un tè. Un liquido che rimanda alla consistenza del set principale, che è sfuggente, inafferrabile, capace di allargare le maglie dell’inquadratura, disperdere la prospettiva fino a frantumarla, assediare il corpo sia dall’esterno che dall’interno. Non c’è mai un centro nelle inquadrature di Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon, l’occhio è sballottato da una parte all’altra dell’immagine, a destra, sinistra, avanti, indietro. Il 3D accentua la profondità di campo e permette lo sfondamento della quarta parete. Ma è ancora la scenografia, unita con i movimenti di camera, a dettare le traiettorie dello sguardo. Una continua messa in abisso dell’immagine, allungata a perdita d’occhio, che accatasta al suo interno passato e presente, ricordi e visioni, corpi umani e mostruosi, come quello del “mutante” pronto a tutto pur di riprendersi la donna amata. Perché il nuovo film di Tsui Hark è, al contrario del precedente, anche un fiammeggiante melò quasi orrorifico tra una bella cortigiana e un mostro, protagonisti di un’intensa storia d’amore nata tra malinconici versi poetici e poi interrotta dall’azione virale del veleno che ha corroso il corpo dell’uomo, fino a trasformarlo in un essere spaventoso. Una trasformazione che riflette l’evoluzione imprevedibile e caotica della narrazione, a sua volta influenzata dal movimento delle maree. Tre atti: avanti, indietro, e poi ancora avanti. La prima mezz’ora, impetuosa nel continuo riposizionamento dentro nuove scene avventurose; poi la sezione centrale, più piana e calma che si allontana dal caos dell’azione per seguire il lento dipanarsi delle indagini scientifiche. E infine l’ultima porzione, che rilancia la spettacolarità iniziale raddoppiandola con almeno due finali, prima nel ventre della terra e poi di nuovo sulla superficie acquatica. Proprio come un’onda che ritraendosi accumula una forza che rilascia nel movimento successivo.
Un lungo respiro che alla fine ci investe producendo un cinema tutto sensoriale che non ha davvero bisogno di una storia per esistere. Potrebbe non raccontare niente questo Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon e sarebbe quasi la stessa cosa. Il cinema con Tsui Hark è oltre qualsiasi definizione, talmente generoso e profondo nel suo movimento immersivo da regalarci oggi quello che sarà, probabilmente, il cinema di domani.