Roma 2015 / Dobbiamo parlare
Quello di Rubini è un cinema grottesco da camera che vorrebbe mettere alla berlina i suoi personaggi ma di fatto si nutre dei loro eccessi per coprire la superficialità borghese che lo anima.
Qual è il miglior gradiente di verità per preservare gli equilibri della vita di coppia? Ma soprattutto, vale davvero la pena trovarlo quest’equilibrio, anche quando a trascinarsi è soltanto una relazione ormai priva di vita e autentiche emozioni?
E’ attorno a queste domande che vorrebbe ruotare il nuovo lavoro da regista di Sergio Rubini, tuttavia Dobbiamo parlare è un film che resta nel limbo delle intenzioni più sterili, enunciate fin dal titolo ma portate avanti con la pigra furbizia di chi si accontenta della strada più facile e finisce per cadere nella stessa superficialità che vorrebbe mettere alla berlina. Un approccio che in questo come in molti casi coincide con l’affondare in un’ironia onnipresente e soverchiante, un umorismo vernacolare che più alza i toni e la frequenza delle battute e più smaschera il goffo scopo di sopperire con demagogia populista alla vacua pretestuosità della narrazione.
Nella sua unità aristotelica di tempo, spazio e azione, Dobbiamo parlare si rinchiude nel set teatrale di un salotto intellettual-borghese, palco delimitato da una splendida libreria davanti alla quale i quattro protagonisti discutono da sera fino a tarda notte. Al centro della scena due coppie speculari, teoricamente amici di vecchia data ma nella pratica tre persone orribili e una “moralista”, tutti pronti ad esplodere dopo che la scoperta di un adulterio ha accesso la miccia di rancori segreti e mai sopiti. Rubini, insomma, gioca a fare il cinema grottesco da camera che splendidamente riuscì a Polanski con Carnage, guardando ai retroscena borghesi di mariti e mogli alleniani - a riguardo si ritaglia persino un personaggio chiaramente ispirato al regista newyorchese.
Tuttavia quand’è il momento di affilare l’analisi psicologica, di superare la facile macchietta per entrare nel vivo di personaggi reali, scrittura scenica e sguardo registico scappano per rifugiarsi nel solido fortino dell’umorismo romano di grana grossa, che certo centra diverse battute divertenti ma comunque rimane il riempitivo di un sostanziale vuoto di senso. Perché il problema alla fine non è tanto l’umorismo in sé ma come lo si utilizza. Rubini qui vorrebbe decostruire i suoi personaggi a colpi di risate, ma di fatto ci ritroviamo offerta l’ennesima contrapposizione tra sinistra e destra vista come scontro di intellettuali impegnati nella cultura e ricchi professionisti interessati soltanto al denaro, una dinamica che denigra vizi e vizietti di entrambi mentre in realtà se ne nutre per strappare al pubblico una risata e un applauso in più.