Elegia americana
Dopo le avventure stellari di Solo, Ron Howard torna al cuore pulsante del suo cinema e a un dramma dotato di forte - seppur artificiosa - intensità drammatica
Due anni dopo aver raccolto il timone di Phil Lord & Christopher Miller alla guida di Solo: A Star Wars Story - portando in scena un inno all’epica della sala cinematografica e della profondità degli spazi in tempi di ambienti sintetici e rilocazione dell’immagine filmica in nuovi ambienti esperienziali, l’istituzionale Ron Howard ha curato la regia di Elegia americana, nuovo ambizioso progetto targato Netflix nonché trasposizione dell’omonimo caso editoriale autobiografico firmato da J.D. Vance. Scritto nel 2016, il progetto di Vance si è posto l’ambizioso obiettivo di rivelare al mondo il cuore profondo degli Stati Uniti e di indagare sull’esistenza di quel bacino elettorale di cruciale importanza per l’elezione di Donald Trump nel 2016 all’interno della Bible Belt, la cintura di stati particolarmente retrogradi e abitati dai cosiddetti hillbillies, termine dispregiativo con cui solitamente si designano le persone che risiedono nelle aree rurali e montuose degli USA.
Attraverso il suo punto di vista di maschio bianco eterosessuale, J.D. Vance racconta in prima persona la vicenda della sua famiglia disfunzionale dominata da figure femminili fortemente matriarcali. Brillante studente di diritto a Yale, Vance è stato cresciuto da una nonna attiva e saggia e da una madre instabile e tossicodipendente. Convinta fino in fondo della validità dell’american dream, la nonna ha sempre incoraggiato il nipote a sfruttare quell’unico sentiero che il suo status sociale gli garantisce di percorrere senza perderlo mai di vista. Alla vigilia di un colloquio da cui potrebbe dipendere il suo futuro, una crisi famigliare costringe J.D. al ritorno a casa. Il viaggio si trasforma nel motivo per ritrovare la madre, riaprire ferite e risvegliare traumi mai risolti, ma fornisce al ragazzo anche l’occasione per riscattare definitivamente il suo passato e plasmare il presente con la speranza di dar vita ad un futuro migliore.
Per certi versi, Elegia americana è un’operazione assai affine a quella portata avanti da Ron Howard in Solo, nonché profondamente iscritta nel cuore di un autore che ha spesso raccontato storie di individui che si battono per la famiglia, per un sogno e, in definitiva, per il loro avvenire. Questa volta il background su cui si erge la messa in gioco del coraggio individuale e della conquista del successo attraverso la sola forza del proprio ingegno è l’America bianca e rurale di cui Vance è originario. Se nella sua precedente regia Howard garantiva la sopravvivenza dell’immaginario cinematografico classico dentro la deriva magmatica dei nuovi media, sottolineando il peso specifico delle icone e dell’esperienza in sala, adesso il regista invita inevitabilmente alla fruizione casalinga di un racconto segnato in modo irrimediabile dall’ottimismo del cinema di Frank Capra. Ridotto nel formato, il classicismo dell’operazione, questa volta, sopravvive attraverso le vicende dei personaggi che racconta.
Più semplice e lineare di quanto possa essere stato presentato nell’ambito del dibattito politico contemporaneo, Elegia americana appiattisce i conflitti e le dinamiche familiari per concentrarsi sulla storia di redenzione del suo protagonista che, probabilmente, è troppo “scritta” e destinata a raggiungere il suo obiettivo fin dalle prime sequenze. In questo itinerario, c’è tanto spazio per momenti di empatia forzata, un po’ meno per l’umanità di personaggi che sembrano ridotti a figurine da collezione con la mera funzione di sostenere il viaggio intrapreso da Vance. Questa storia esagerata, sopra le righe e segnata da due performance attoriali che, paradossalmente, cercano la naturalezza attraverso il massimo della “mediazione” – a fungere da maschera è la scarnificazione di due attrici (s)truccate fino ai limiti del possibile – colpisce per la sua linearità sentimentale ma, allo stesso tempo, delude per un non so che di fittizio e artificioso, caratteristiche che, quando sono in ballo drammi umani, finiscono per privare il racconto della potenza naturalistica di cui avrebbe avuto bisogno.