Gloria Bell
Non un semplice remake: Sebastián Lelio trasferisce il suo personaggio dal Cile agli Usa e racconta una storia sensibilmente diversa.
C’è una profonda differenza tra Gloria, film del 2013 che lanciò il regista cileno Sebastián Lelio, e Gloria Bell, titolo del 2018 che si presenta come remake americano dello stesso cineasta. Il plot naturalmente non cambia: storia di una donna di 58 anni, divorziata e con due figli adulti, che non si rassegna a una stasi sia esistenziale che sentimentale, ma vuole ancora vivere. Frequenta locali e discoteche, ama ballare, si chiama come la canzone di Umberto Tozzi (e la versione inglese di Laura Branigan) che la rappresenta ed è suo correlativo oggettivo nel racconto. Una donna grande che vuole essere libera: contro il pregiudizio, la visione sociale imposta, la convinzione che la gioia della vita a un certo punto finisca. Anche contro i colpi ricevuti, come un divorzio, il suo personaggio è strenuamente ottimista e lotta ancora, racchiuso in una frase-motto: «Quando il mondo finirà vorrei andarmene ballando». Così Gloria alla soglia dei sessant’anni costruisce una nuova ipotesi sentimentale.
Scambiato erroneamente per remake filologico dell’originale, Gloria Bell segna una distanza a partire dal titolo: Lelio aggiunge il cognome della donna, Bell, assente nel prototipo che era semplicemente Gloria. Un cognome americano. Qui si affaccia la prima divergenza che è già contenuta nella premessa: inscenare un’adulta autonoma e sessualmente attiva in Cile oggi è una storia, farlo negli Stati Uniti un’altra sensibilmente diversa. La Gloria di Paulina Garcia nella società sudamericana viene talvolta guardata con sospetto, addirittura giudicata, offrendosi come “mosca bianca” in uno Stato con una storia e cultura implicita, ma fortemente presente; la Gloria di Julianne Moore nell’America del Nord, ovvero nel cuore dell’Occidente, è una figura tutto sommato “normale”, mimetizzata tra le molte divorziate single, non c’è nulla di strano nella sua vita che al contrario viene lodata o invidiata da chi le sta intorno. La scelta del remake, voluto dalla stessa Moore, è quindi l’occasione per mettere allo specchio Santiago e Los Angeles, l’America latina e gli Stati Uniti, proponendo in entrambi gli scenari lo stesso personaggio, in un trasferimento nient’affatto banale perché si porta dietro anche uno slittamento di senso. Da un Paese in via di sviluppo al ventre del capitalismo, le differenze sono evidenti e riguardano anche la politica, intesa qui come sua assenza.
La Gloria cilena incontra un uomo maturo, Rodolfo, che ha un nebuloso passato militare: impossibile non pensare al colpo di Stato del 1973 e, seppure si mantenga a lato della politica (la vicenda resta principalmente umana), l’ombra del passato e della dittatura militare si allungano ripetutamente sull’intreccio. Non a caso Lelio scrive quel personaggio, lì interpretato da Sergio Hernàndez, attribuendogli l’abitudine di sparare per finta... Con la Gloria americana le cose cambiano. Lo stesso uomo, qui Arnold interpretato da John Turturro, si diverte a sparare perché semplicemente immaturo: è un divorziato con due figlie che non sa gestire, da loro assediato al cellulare, con una tendenza endemica alla fuga. Insomma, se nella scrittura di Rodolfo risuona a tratti l’eco sinistra della Storia, quella di Arnold è un saggio sull’immaturità del maschio occidentale, incapace di rendere indipendente la prole e tutto sommato anche se stesso. È così che Gloria Bell fa un passo diverso non solo nella rappresentazione della donna, ma anche in quella dell’uomo.
Ecco allora che il film del 2018 si smarca dalla lettura politica e sociale e diviene soprattutto racconto sulla possibilità di un amore overage: una storia tra sessantenni, in cui i due poli della coppia non riescono a mettersi d’accordo, per il problema maschile ma anche per il carattere di Gloria che è fallibile e sbaglia qualcosa, per esempio nella cena con l’ex marito. Due anime che non si trovano, in definitiva, e producono l’avvitamento della protagonista su di sé, nella realizzazione che l’unico punto di riferimento è proprio se stessa: ma lei non arretra e anzi rilancia, riaffermando un'essenza e ballando, simbolicamente, la sua canzone omonima. Stesso approdo, come stessi sono i passaggi dei due racconti (la metafora del problema agli occhi, il vedere e l’essere vista), ma una forma sostanzialmente diversa che costruisce anche un’altra sostanza: sarà per questo che Lelio “accende” la versione americana con colori chiari, vivi, dalle fluorescenze dei discopub alla solarità dell’esterno giorno, contro la partitura cilena più scura e crepuscolare. D’altronde le scelte visive dell’autore non sono mai casuali: per esempio il seminudo di Julianne Moore, con il gatto sphynx a coprire le parti intime, quadro mirabile che comprende un intruso “strano”, senza pelo, presenza fantasmatica costante che alla fine si impone. Se Gloria va invano verso emozioni e sentimenti, elementi della vita a cui non vuole rinunciare, c’è anche “qualcuno” che viene verso di lei. Lontano dal semplice rifacimento, Gloria Bell è l’ennesimo tassello logico e coerente nel percorso di Lelio: di fatto accettare l’amore e il sesso a sessant’anni è molto diverso da accettare una natura transgender, come in Una donna fantastica? Forse no, forse riguarda sempre l’essere donna, l’uscita dalle convenzioni, la ricerca della libertà e il senso del nostro stare qui oggi.