Nonostante El Sicario Room 164 non si possa che classificare come documentario, in realtà non segue né le logiche né tantomeno le regole del suddetto genere. Il film è una lunga intervista a cui il regista, Gianfranco Rosi, non cerca di iniettare alcun dinamismo stilistico. Non è riscontrabile nessuna verve tecnica, nessun effetto sonoro, insomma, nessun escamotage registico che cerchi di rimuovere staticità. Se l’idea di assistere ad un ‘talking head’ per circa ottanta minuti può essere una prospettiva agonizzante, il risultato è lontano dal noioso. Questo perché colui che parla e quel che ha da dire bastano ad attirare l’attenzione. Rosi questo lo sa, e l’immobilità della macchina da presa non fa che conferire ancor più inquietudine all’atmosfera. Su un’operazione come questa, un lavoro di montaggio, mi si passi il termine, più “sofisticato” avrebbe rimosso tensione, giovando ai nervi dello spettatore. Rosi, invece, non vuole che si crei nessuna valvola di sfogo, nessun momento di distrazione. Si è costretti ad osservare quell’uomo corpulento dall’inizio alla fine, cercando di immaginare che volto ci sia sotto quel cappuccio da boia nero…
Tutto ha inizio da un articolo pubblicato su Harper Magazine nel 2009 a firma di Charles Bowden, in cui il giornalista racconta le vicissitudini e l’attività di un misterioso sicario/torturatore che lavora per conto del cartello della droga messicano. Due anni dopo la pubblicazione del pezzo di Bowden, che aveva generato non poco scalpore, viene presentato questo piccolo film, al Festival di Venezia, nella sezione Orizzonti. L’intervistato, la cui identità, per ovvi motivi, non viene mai rivelata, ci informa con voce tranquilla di aver ucciso almeno un centinaio di persone nella sua lunga “carriera”. El sicario è un esperto in torture e rapimenti, dichiara di essere stato addestrato dal F.B.I e di aver, addirittura, assunto il ruolo di comandante della polizia statale di Chihuahua. Mai accusato di alcun crimine, attualmente vive libero ma da fuggitivo, poiché sulla sua testa pende una taglia di 250.000 dollari. L’intervista fiume è un susseguirsi di dichiarazioni aberranti che spaziano dall’ammissione di aver corrotto pubblici ufficiali a quella di aver fatto violentare una donna da più uomini prima di ucciderla.
A pensarci bene, un genere lo si può affibbiare a questo film, tutt’ora inedito in Italia: horror. Questa definizione non è una provocazione e non è da leggere come termine populista in riferimento alle situazioni disturbanti elencate dal protagonista. Si ricollega, piuttosto, ad una dinamica precisa, quella della proiezione. Senza voler fare psicologia spiccia, è risaputo che il cinema dell’orrore è il cinema, per antonomasia, della catarsi. Proiettiamo, per l’appunto, sull’angolo buio, sul mostro che percepiamo aleggiare in fondo al corridoio, paure ataviche ed infantili, e, più volte che no, questa dinamica ci porta ad immaginare cose ben più atroci di quello che, più in là, ci verrà mostrato. Con questo film è la stessa cosa. El Sicario, per tutta la sua durata, tiene il volto coperto da una pezza nera, pressoché identica a quella di un boia medievale. Intuiamo, dalla larghezza delle spalle e dalle mani tozze, che si tratti di un uomo dalla mole impressionante; espone la sua vicenda in maniera chiara e lucida, aiutandosi talvolta con un grosso block-notes su cui butta giù schizzi e parole chiave. Su quella pezza nera e quelle mani ruvide ci ritroviamo a proiettare paure e visioni, con la differenza che qui non arriverà nessuna rassicurazione. Quel cappuccio non verrà mai tolto e il nodo in gola non verrà sciolto. Il risultato è un film alienante, certamente non per tutti, che mette a dura prova sia nervi che stomaco. Il regista, Rosi, nato in Eritrea e cresciuto in giro per il mondo non è nuovo a questo genere di operazione e ad un approccio sperimentale. Infatti, nel 2008 ha vinto ben due premi, proprio a Venezia, con il documentario Below Sea Level, realizzato nell’arco di cinque anni, e, più recentemente, si è aggiudicato il Leone d’oro con Sacro GRA.