In guerra
Brizé torna ad immergersi nei temi del lavoro e lo fa con un film di gesti e corpi, potente e radicale, strettamente connesso a un preciso pensiero etico e politico.
Una storia comune, come se ne leggono sempre più marginalmente, perché ogni giorno è minore l’attenzione che i giornali dedicano alle traversie degli operai in lotta per la difesa del posto di lavoro. Una di quelle vicende che negli anni della Thatcher avrebbero ispirato la fantasia dei Loach e dei Leigh, di quelle lotte che all’epoca scuotevano le coscienze ma di recente si sono fatte via via più episodiche e, in misura inversamente proporzionale all’impietoso dilagare della precarietà, quasi anacronistiche. Lavoratori, scioperi, licenziamenti. Una storia già vista e sentita. Eppure mai così drammaticamente puntuale, contemporanea, rappresentativa del presente.
Dietro al caso della Perrin messo in scena nel film In guerra, infatti, dietro al nome fittizio di una fabbrica specializzata in componenti automobilistici con sede nella Nuova Aquitania, non è difficile riconoscere le esperienze sindacali di tanti stabilimenti europei che hanno subito e ancora subiscono la medesima sorte: chiusura e delocalizzazione, con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Sono in 1100, nella finzione, a opporsi al progetto di dismissione che prevede la cessione a una multinazionale tedesca e lo stop definitivo degli impianti, in barba agli accordi siglati nei due anni precedenti, a scapito dei sacrifici dei lavoratori e nonostante un profitto da record. La risposta è uno sciopero durissimo che, in attesa di una risoluzione, blocca per tre estenuanti mesi produzione e stoccaggio. Nulla di originale o di non visto, appunto. Nella finzione come nella realtà. Perché, allora, In guerra è da considerare un film così fuori dall’ordinario? Così unico? Cos’è che lo rende il più sconvolgente contributo cinematografico sulla working class degli anni Duemila, sulla delegittimazione del lavoratore, messo alle corde dalla globalizzazione, piegato dalle logiche del capitalismo e da quella legge del mercato già portata sullo schermo da Stéphane Brizé nel 2015? La risposta è nella forma. In una scelta estetica potente e radicale. Non aprioristica, né esibita, ma strettamente connessa a un preciso pensiero etico e politico. Rigoroso. Senza per questo chiudere le porte alla commozione.
In guerra è un film di gesti e di corpi. La parola, molto presente in sceneggiatura, c’è ma è delegittimata. Si pensi alle interminabili discussioni, all’esasperante susseguirsi di promesse tradite e all’uso ricorrente dell’espressione «le do la mia parola», «non ha mantenuto la sua parola», rinnegata nel significato. Il dialogo è fallito, la parola non conta. Contano solo i gesti, anche i più estremi. Gli unici in grado di produrre qualche effetto sulla realtà. Per questo Brizé sintetizza l’atto politico in una performance che viene posta al centro del discorso. Dell’atto politico, ovvero la protesta, la battaglia, di questa sfiancante guerra di posizione che si consuma su fronti opposti, osserva soprattutto la coreografia, la ritualità, la strategia. Come in un musical il climax è rappresentato dal numero di danza dei ballerini, o un wuxia trova il suo apice nelle scene di combattimento tra samurai, o ancora meglio in un war film - ça va sans dire - con l’alternarsi della messa in scena del disegno tattico e delle sequenze di battaglia, qui, soprattutto, il centro nevralgico si trova nella concretezza dell’agire: cortei, slogan, striscioni e bandiere, pugni chiusi e picchetti, resi epici dal suono distorto di una chitarra elettrica interrotto da improvvisi squarci di silenzio bruschi come strattoni. E ancora: i tavoli di contrattazione, le ore passate al freddo, le attese, le accese discussioni e, quando serve, calci e botte. Che non si consumano in un posto qualsiasi, ma in un luogo-simbolo: davanti al cancello della fabbrica, sulla linea di demarcazione che segna gli inclusi e gli esclusi della società.
La concessione alla narrazione classica è ridotta al minimo. Si procede per blocchi, scanditi ritmicamente dall’interpunzione sonora delle musiche ora violente ora malinconiche, comunque ipnotiche, composte da Bertrand Blessing. Al regista non interessa neppure scavare nella dimensione privata dei personaggi, che non sono tali in quanto individui, ma parte di un unico corpo collettivo. L’unica (breve) licenza riguarda il protagonista Laurent Amédéo, operaio sindacalista sempre in prima fila, che ha la forza tragica dell’eroe e il volto umanissimo di un Vincent Lindon bigger than life. La vita extra-fabbrica è relegata fuori campo, al pari dei dirigenti della nuova proprietà: entità smaterializzate che incombono con le loro decisioni prese dall’alto senza mai metterci la faccia.
Il dispositivo agisce per mimesi: imitando le forme del documentario quando si muove all’interno del disordine-ordinario, nel vivo dell’azione di protesta; aderente agli stilemi dei media televisivi quando vuole prendere le distanze e osservare la realtà con pretesa oggettività, dall’esterno; attraverso l’uso di un telefonino in modalità verticale solo nell’ultima sequenza, quando è opportuno applicare un filtro “etico” all’osservazione dell’ultimo irreversibile atto, quando la tragedia attraversa il corpo di quella classe operaia destinata al paradiso, vessata in terra, ma anche minata da conflittualità interne inaccettabili agli occhi dell’idealista.
Qualcuno dirà: mancano le sfumature, ci sono solo buoni e cattivi. Ma è così che vanno le cose in guerra. In guerra ci sono due schieramenti. In guerra si fanno i morti. E in un mondo in cui si è progressivamente persa la dimensione della collettività e dell’impegno, Brizé sceglie senza titubanze o mezzi toni da quale lato della barricata stare.