Serenity

di Steven Knight

Il film con il colpo di scena: è possibile rifarlo oggi?

Serenity di Steven Knight

Il colpo di scena. Uno dei trucchi antichi del cinema, ereditato dalla letteratura, e la più diffusa scelta narrativa per ribaltare le certezze di chi guarda: scardinare una convinzione, mettere in dubbio, costringere alla rilettura a posteriori. Ovviamente, divertire: cambiare improvvisamente sapore perché, come diceva Hitchcock, «il cinema non è una fetta di vita, è una fetta di torta». Non c’è fine al colpo di scena nel cinema del postmoderno: registi ci hanno costruito una carriera o almeno l’innesco, come Shyamalan, autori sotto la copertura del cinema commerciale lo hanno frequentato, come David Fincher. Serenity di Steven Knight si inserisce nella tendenza e pone un problema di senso: la possibilità del colpo di scena oggi.
Siamo a Plymouth Island, non meglio specificata isola dei Caraibi: qui l’ex soldato Baker Dill (Matthew McConaughey) porta i turisti a pesca in mare aperto con la sua imbarcazione (Serenity, appunto) ed è ossessionato dalla sfida di catturare un tonno gigante, più volte preso all’amo e sempre sfuggito. Uno scontro che si rinnova, come Santiago e il marlin ne Il vecchio e il mare - e allo stesso modo il pesce trascina la barca -, fino a sconfinare nella fissazione: «That’s the tuna in your head», gli dice un amico. Il pretesto che accende la miccia è l’arrivo sull’isola di Karen (Anne Hathaway), ex moglie di Baker e madre di suo figlio, con una richiesta particolare: portare a largo il suo nuovo marito Frank (Jason Clarke), alcolizzato e violento, per poi ucciderlo e gettarlo nell’oceano.

Lo sceneggiatore Steven Knight torna alla regia cinematografica sei anni dopo Locke (in mezzo la serialità, soprattutto Taboo da lui interamente scritta) e mette subito in chiaro una cosa: non siamo sul terreno del realismo. In Serenity infatti, sin dall’inizio, la partita si gioca apertamente nel campo dell’immaginazione: lo attestano gli archetipi installati sui personaggi, come il riferimento a Hemingway, i luoghi comuni del contesto (l’isola, l’amico nero, l’amante) e alcuni particolari che denotano una sfacciataggine così esasperata da risultare quasi ammirevole, vedi il tonno gigante chiamato Justice (e dunque, di conseguenza, Baker sta cercando giustizia). L’autore non fa niente per nascondere il suo intento, anzi lo espone: la prova è nel montaggio alternato che presto mostra la vicenda di Baker intrecciata alle immagini di un bambino che, davanti al dramma della madre maltrattata, sceglie di uscire dalla realtà e scappare nella fantasia diventando un giovanissimo programmatore informatico. Vediamo il piccolo Patrick, figlio di Baker, che scrive in codice html: è lampante che ciò che stiamo guardando è un videogioco programmato dal ragazzo, che lo costruisce gradualmente, a questo si devono gli stereotipi che riempiono il racconto (d’altronde Plymouth Island non ricorda forse Monkey Island?). È lui il master che crea la storia e, naturalmente, nella sua testa di bambino i tratti narrativi sono semplici e non strutturati: siamo nel cervello di un giovane che forse ha letto un libro a scuola (Il vecchio e il mare), forse ha visto Audrey Hepburn in Tv (i vestiti della Hathaway, soprattutto il primo), sicuramente è nutrito dei loop e ripetizioni del pop odierno, così si spiega il déjà-vu di Baker che si ritrova sempre allo stesso incrocio. Ma c’è di più: sul primo colpo di scena Knight innesta perfino il secondo, ovvero (spoiler) il protagonista che è morto in Iraq fatto rivivere nel videogioco del figlio.

L’autore lavora in antitesi sull’iperrealismo tentato in Locke, con Tom Hardy solo a bordo della sua macchina, e cesella un mondo inventato come - tutto sommato - già in Taboo che immaginava una Londra dell’Ottocento secondo lui, tra sfondi anneriti e cappelli a cilindro. Qui lo fa corteggiando l’immaginario contemporaneo del mind game movie, che va dalle cosmogonie del Nolan di Interstellar agli easter eggs di Spielberg in Ready Player One, per arrivare all’episodio Bandersnatch di Black Mirror (già giocato e dimenticato), perché Patrick alla fine riscrive il gioco per evitare la “scelta sbagliata”. Tutto questo, però, è anestetizzato, superficiale, automatico e for dummies: dalle smorfie di McConaughey (che sia anch’esso uno stereotipo?) alle svolte improbabili e grottesche, il film si getta nelle braccia dei suoi twist con una fiducia cieca e folle, destinata inevitabilmente al fallimento.

Serenity è stato stroncato all’unanimità dalla critica americana, tranne rare eccezioni («The best bad movie of the year», lo definisce Kristin Iversen nell’articolo In Defense of Serenity). Ma, forse, non è tutta colpa di Steven Knight. Il punto è un altro. E riguarda proprio il colpo di scena: si può rifare oggi, è credibile e opportuno? Nell’ultimo anno del Novecento usciva nelle sale Il sesto senso di M. Night Shyamalan, una rivoluzione per l’epoca (Bruce Willis è morto!), fondativo di quel cinema ma anche datato, non citato tra le vette del magnifico regista: era un’epoca con le Torri gemelle e le monete uniche, prima del digitale e delle “guerre al terrore” (e dei protagonisti morti in Iraq), dove l’incredulità poteva ancora essere sospesa. Oggi anche McConaughey è morto, ma questo non stupisce più nessuno: tutto è già visto e fatto, al tempo dei social network e dei sovranismi, il colpo di scena non può sorprendere davvero. Vent’anni dopo Il sesto senso basta guardare fuori dallo schermo e non c’è una serenity possibile.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 10/06/2019
USA 2019
Regia: Steven Knight
Durata: 106 minuti

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