Panama Papers
Affiancato di nuovo da Scott Z. Burns, Soderbergh prosegue il suo cinema insurrezionalista e mette in piedi una giostra metacinematografica capace di unire in modo esilarante riflessione teorica, impegno liberal e ricostruzione giornalistica.
Cosa implica una transazione diretta tra merci o tra beni mediati dal denaro? Oscillazione di potere, dispiego di forza lavoro, interazione umana. In ogni sua forma il denaro è l’esercizio di relazioni sociali, e se nel mondo post-umano di oggi sempre più elementi di linguaggio e di espressione sociale precipitano nel virtuale, nella dialettica dicotomica di 0 e 1 che proietta nell’orizzonte digitale azioni e comunicazioni, perché lo stesso non dovrebbe accadere al denaro? Ecco così che dallo scambio di «mucche e banane» passiamo, stacco di montaggio tra la clava d’osso e l’astronave, all’immaterialità di bond, futures, derivati, ricchezze finanziarie che viaggiano, si moltiplicano e nascondono nelle infinite reti sotterranee dell’economia globalizzata. Sono significati in fuga dai loro significanti, ricchezze virtuali che necessitano per vivere di scatole cinesi altrettanto immateriali che si ripetono come frattali, attraverso le macro e micro economie di tutto il mondo. Partendo dall’inchiesta giornalistica Secrecy World di Jake Bernstein, Steven Soderbergh si getta nella nuova economia virtuale e prende di petto il caso dei Panama Papers, scandalo internazionale ricostruito da questo The Laundromat (Panama Papers), il secondo fenomenale film del regista per quelli di Netflix. Del resto, come spesso accade in Soderbergh e in particolare in quest’ultima straordinaria fase della sua carriera, le forme del racconto non si esauriscono mai in loro stesse ma si aprono a riflessioni, indagini e giochi brillanti sulle cifre più intime del mondo contemporaneo.
The Informant!, Contagion, Effetti collaterali. Sono questi i tre film che lo sceneggiatore di The Laundromat, Scott Z. Burns, ha già scritto per Soderbergh, tre opere vertiginose che dialogano apertamente in questo quarto lavoro dove si fondono cospirazione internazionale, economia infettiva e disfacimento del reale. Soderbergh e Burns si impegnano a ricostruire e illustrare allo spettatore la vasta organizzazione messa in piedi dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, al centro dello scandalo giornalistico permesso da una gola profonda nel 2016. Ma questo lavoro d’inchiesta passa attraverso i più limati strumenti del cinema popolare hollywoodiano, similmente a quanto fatto da Adam McKay con La grande scommessa, dove la tradizione del cinema politico americano veniva riletta attraverso la lente comica della frat pack. Rispetto a McKay però Soderbergh non si accontenta di un solo genere di riferimento, e per la sua rivisitazione decide di attraversarne molti mettendo in piedi una giostra metacinematografica capace di unire in modo esilarante riflessione teorica e ricostruzione giornalistica.
Panama Papers è assieme thriller economico e commedia grottesca, pamphlet politico e indagine giornalistica, è cinema eversivo dall’irresistibile carica morale, il tutto attraverso un impianto metalinguistico che sfonda la quarta parete, chiama in causa cast, crew e spettatori, e svela la messinscena cinematografica per interrogarsi sul potere espressivo dell’immagine oggi. Sulla sua capacità di questionare e disvelare il reale dall’interno di un contesto socioculturale sempre più astratto e in costante, frenetico movimento. Perché per quanto si complichi la nostra vita contemporanea, per quanto contraddittorie e schizofreniche e artificiose siano le sue moltiplicazioni, non possiamo sottrarci alla dimensione etica del vivere comune, all’importanza di conservare una bussola morale che passa anzitutto attraverso la scesa in campo del racconto con tutti i suoi elementi. Per questo, per quanto divertente e divertito sia Panama Papers (e lo è davvero molto), esso resta comunque un film di feroce determinazione, che si fa strada nella giungla tassonomica sempre più autoreferenziale dei codici linguistici di oggi (postmoderno, e post-postmoderno, e post-post-moderno, e post-verità e via dicendo) e ne taglia il nodo gordiano senza ulteriori fronzoli e disseminazioni teoriche. La tradizione dell’inchiesta liberal americana di stampo anni ’70 deflagra in un gesto tanto anarchico quanto consapevole, esercitato da un regista che oggi è davvero il più grande insurrezionalista dell’immagine hollywoodiana, il cavallo di Troia che sfregia il volto perfetto dell’industria culturale insinuandosi dentro i codici e le logiche del più rodato spettacolo popolare. Panama Papers è solo l’ultimo esempio (ma uno dei più riusciti) di quanto sia importante questo modo così eversivo e politico e morale di fare cinema. Viviamo nell’era della consapevolezza, sembra dirci Soderbergh; ebbene, usiamola.