West Side Story
Dopo "The Irishman" un altro film sulla morte del cinema come architrave del novecento, ma anche e soprattutto un gesto di vitalità estrema in cui immagini classiche e contemporanee vengono poste a dialogo, ricercando nella storia dell'immaginario una nuova sintesi.
Somewhere, a place for us
C’è un conflitto costante, in West Side Story, un confronto a più riprese tra passato e presente, tra quel che c’era prima e l’oggi, che una volta immersi nel film si esplica tutt’attorno a noi spettatori e ci interroga sul modo che abbiamo di guardare, pensare, immaginare il mondo. Su cosa sia per noi raccontarlo e vederlo raccontato, anzitutto su grande schermo.
Non è solo questione di Sharks e Jets, anche se sì, certo, la questione razziale e la spaccatura nel tessuto sociale tra bande rinchiuse in una gabbia che crolla, mura che sono macerie, è il centro della riscrittura di Tony Kushner, che del resto è sceneggiatore e drammaturgo di razza (basti citare Lincoln e Angels in America). Ma, appunto, non è solo questione di adattare quello che è forse il più grande musical di tutti i tempi a rappresentazione aggiornata dell’America frammentata cresciuta all’ombra dei mandati Obama, e impostasi poi in primissimo piano con Trump. Gli Stati Uniti di oggi sono un paese di schegge e fazioni che fatica a percepire il tutto che le unisce, la conflittualità sociale è altissima e la tensione ribolle, e di questo il West Side Story di Steven Spielberg è una rappresentazione fedele, un monito cinereo. Ma il cuore del film non è questione di script e adattamento narrativo, non solo, e non potrebbe esserlo perché se c’è oggi un regista in grado di sentire le immagini e comprenderle nel loro valore storicistico, nel potere che hanno di reagire al contemporaneo pur ripetendosi, ripresentandosi nella loro storia in versioni aggiornate, riscritte, risemantizzate (Ready Player One è uno dei film chiave riguardo il fare e pensare il cinema oggi), quello è Spielberg.
Il suo cinema oggi è tra i più intelligenti e consapevoli nell’interrogarsi sui rapporti – ondivaghi e in costante ridefinizione – che legano immaginario, memoria e contemporaneità. Per questo il suo West Side Story non è adattamento, remake, revisione aggiornata, ma testo aperto nel quale assistiamo al conflitto tensivo tra il cinema di ieri e di oggi. Un corpo a corpo tra immagini che furono e che sono, tra la storia del musical (genere che è tradizione per eccellenza) e le aperture continue all’iperrealismo, all’inspessirsi ruvido dei toni, degli umori, dello sguardo. West Side Story salta costantemente da una parte all’altra di quella linea che separa l’ingenuità e l’innocenza dello sguardo dalla consapevolezza moderna della crisi, creando un conflitto tra i due modi di intendere l’immagine (classica vs contemporanea) che altro non sono che due modi di intendere il cinema e il mondo, di saperlo guardare.
I sessant’anni intercorsi tra il capolavoro di Wise e Robbins e questo – che sì è un altro capolavoro, e tra i più grandi di Spielberg – non passano certo inosservati, ma il salto temporale non si esplica solo nelle rinnovate possibilità tecnologiche (questo WSS è la leggerezza e la vita incarnate e portate su schermo anche grazie a movimenti di macchina prima impossibili), diventa piuttosto un bagaglio di esperienze, una galleria di sguardi a cui fare riferimento. Dentro questo West Side Story c’è il musical (e il cinema classico tout court) a confronto con il disincanto oscuro del contemporaneo, ma a mediare tra i due ci sono sessant’anni di cinema che rendono il film un grande almanacco del tempo che cambia, dove i neon sfavillanti pienamente eighties possono dialogare con le atmosfere urbane grezze e semi-documentaristiche del thriller urbano anni Settanta, e la nostalgia spettrale dei ribelli senza causa incontra il pastiche nel musical postmoderno anni Novanta.
È evidentemente un film fuori dal tempo, West Side Story, un gesto funebre che completa e rilancia il discorso di The Irishman sulla morte del cinema come medium architrave del novecento, facendo sue strategie e tempi narrativi lontani anni luce dalle modalità di racconto contemporanee. Ma quest’esilio volontario dall’oggi – che celebra la bellezza e grandiosità di un’era in cui il cielo sullo schermo era di carta e senza strappi, e non vi era nulla di più vero della finzione – non deve e non merita di passare “solo” come gesto cerimoniale.
Il futuro in West Side Story non muore sparato per strada da un ragazzo furioso che non capisce la sua stessa rabbia, non è una chimera ma un cuore pulsante che resta vivo dentro e attraverso le immagini, in filigrana lungo tutto il film, celebrando un incontro di vita e morte in cui i corpi che sempre invadono lo schermo sono tutto fuorché fantasmi: si toccano, si tengono mani, collo, viso, si sfidano e schiantano, spezzandosi e rompendosi, e c’è così tanta vita in loro e che scorre in questo film da accecare tra i mille colori e voli della macchina da presa, per la volontà di non fare di questo immaginario un museo di polvere e simulacri ma un ritratto vivo dove ancora scorre rosso il sangue. Come se tutto il film fosse un gesto, doloroso, che attesta il dominio di un’era diversa, disincanta e avida di illusione, ma anche un invito a lottare per conservare il proprio posto dentro un reale in cui sia ancora possibile cantare e ballare tra le macerie, perché si è fatto tesoro di quella stessa illusione come meccanismo fenomenale per comprendere ed esperire il mondo.