Synecdoche, New York

Arriva finalmente nelle sale lo splendido film di Charlie Kaufman, accompagnato dal tragico ricordo della morte del suo protagonista

“Le metropoli sono i veri palcoscenici di questa cultura che eccede e sovrasta ogni elemento personale.”

Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito

La sineddoche è una figura retorica che consiste nell’esprimere un’immagine per mezzo di un’altra che la comprende o ne è compresa.

Synecdoche, New York, allo stesso modo, è un ipnotizzante gioco di specchi che, sforzandosi di descrivere il tormentato itinerario esistenziale di un regista teatrale in crisi d’ispirazione, racconta la storia di tutti noi, strutturandosi come un saggio drammaticamente lucido sulla nostra contemporaneità oltre che come uno dei capolavori più imponenti dell’ultimo quindicennio di cinema. New York è, nell’immaginario collettivo, la città simulacro per antonomasia, il simbolo universale della vita metropolitana neocapitalista: un reticolato di ferro, vetro e cemento sempre sveglio, animato dal rumore assordante del traffico, immerso nella luce irrealistica dei neon, dominato dalla verticalità dei grattacieli. Uno spazio artificiale in cui pare trovare la sua realizzazione più compiuta quel genere di attitudine nei confronti del collettivo che (già ai primi del Novecento) il sociologo tedesco Georg Simmel etichettava come “atteggiamento blasé”, inteso come sostanziale “attutimento della sensibilità rispetto alle differenze tra le cose” responsabile di ricondurre l’intera gamma dell’esistente a un “colore uniforme, grigio, opaco”, al valore di copia, replica indifferente. (G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito)

La New York di cartapesta in cui Caden Cotard (Philip Seymou Hoffman) tenta di (ri)mettere in scena la propria vita nel contesto di un mastodontico ed epocale spettacolo teatrale è allo stesso modo una città artificiale strutturalmente fondata sul modello ontologico della copia. Prima di tutto, essa stessa è copia di un luogo reale e si sviluppa in un tempo ellittico percepito come sempre identico dal protagonista. Ospita poi un mondo di doppioni che, come cellule in mitosi, tendono continuamente a sdoppiarsi, ricrearsi, scambiandosi ruoli, creando nuove elaborazioni di sé stessi, rimettendosi in scena. Lo stesso Caden, regista di una recita che doppia la sua vita in un loop senza fine, è un personaggio che si propone – sin dall’atto del suo presentarsi sullo schermo – come copia e rielaborazione di modelli formali già storicamente consolidati nell’universo estetico novecentesco. Nel suo essere “un uomo già morto, che vive in un mondo di mezzo, tra tesi e antitesi, in cui il tempo è concentrato, cronologicamente confuso” veste palesemente i panni del Guido Anselmi di (o addirittura quelli del Charlie Kaufman in celluloide de Il ladro di orchidee). In questa sua irrisolvibile confusione esistenziale, incapace di comprendere che “tutti sono tutti, le specifiche contano poco”, Caden è inoltre anche il Vitangelo Moscarda di Pirandello, “troppo impegnato a cercare sé stesso” per accorgersi che nell’era della progressiva e inarrestabile digitalizzazione dell’esperienza, l’unica reale possibile modalità dell’essere al mondo sta nella potenzialità, nella logica dinamica dell’apparire e dello svanire, nella trasformazione, nella non-fissità e non-univocità del Sé.

In questo senso il gigantesco teatro di posa creato da Caden è in realtà la più radicale concretizzazione del concetto di individualità nell’era in cui il virtuale ha spodestato al concreto il primato sulla sfera del quotidiano. Il microcosmo di cartone in cui i fantasmi dell’esistenza del protagonista si affollano, si mescolano, si scambiano di ruolo giunge a corrispondere a quell’interzona trans-culturale, trans-razziale e trans-gender in perenne espansione costituita dal virtuale in cui chiunque attiva la possibilità sempre rincorsa e anelata di essere in modo (sempre) diverso.

E proprio sull’informatico, sul virtuale, sulla logica dell’accumulo indifferenziato propria dei database dei nostri computer, la struttura di Synecdoche è rigorosamente imperniata. Il film di Kaufman fonde in uno slancio di sapore cubista spazi, tempi e racconti differenti in un unico celebrale meccanismo di scatole cinesi. A convivere infatti – all’interno dell’affascinante e informe caos di una narrazione governata da una temporalità nebbiosa – non sono solo le identità multiple e perennemente dislocate dei protagonisti ma anche i loro punti di vista che, di volta in volta, assumono la funzione di principio narrativo. Così la voce di Caden che conduce lo spettatore all’interno della sua New York ricostruita non è che una delle guide a cui Kaufman ancora lo sviluppo diegetico. Durante la prima parte del film, infatti, la trama sembra nascere e svilupparsi dalle parole della figlia di Caden, appuntate su un diario segreto d’infanzia che, magicamente, continua a “scriversi da sé” nonostante la bambina cresca, lontana dal padre, in un’altra parte del mondo. E nel finale, il testimone si svincola dal protagonista e passa ad Ellen – apparsa in scena per la prima volta a mezz’ora dalla fine nelle vesti di una delle innumerevoli attrici che affollano il set teatrale – la quale scambia letteralmente il proprio ruolo esistenziale con quello di Caden e, divenuta regista, mette in scena “la propria personale miseria”. Ad ogni scarto di prospettiva, così, il film si riavvia e dà vita a una narrazione nuova, inaspettata, inattesa.

Alla deflagrazione di un concetto univoco dell’esser(ci) segue dunque in modo naturale una crisi dei tradizionali modi del dire. Traslando continuamente l’asse della narrazione da una voce all’altra, da un’esistenza all’altra, da una miseria all’altra, Kaufman racconta ancora una volta in modo rigoroso la nostra epoca: quel mondo dell’iper-esposizione del privato fatto di cornici narrative (digitali e non) in cui tutti possono elevarsi al rango di narratori.

Autore: Stefano Oddi
Pubblicato il 09/08/2014

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