Jojo Rabbit
Taika Waititi volge il suo interesse alla Storia e, attraverso il candore umano, ne smantella i miti.
L'ultima parentesi dal tono indipendente di Taika Waititi, prima della nuova immersione tra i roboanti tuoni Marvel, è, innanzitutto, un film di fantasmi. I vivi e i morti popolano Jojo Rabbit, a partire dalla figura del padre del piccolo protagonista, al fronte senza che giungano sue notizie da tempo, e di Elsa, una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano spostatosi a Parigi. La giovane è nascosta in un anfratto del suo appartamento da Rosie, la dolce madre di Jojo e unico essere umano dotato di amore, compassione e senso della vita, quasi come fosse una presenza umbratile anche lei. E, infine, c'è quell'Adolf Hitler partorito dalla mente allineata di Jojo -coniglio, definito dai suoi superiori-, un favoleggiato mostro nell'armadio che rende il sentire del bambino schiavo di definizioni da adulti e opacizza il suo sguardo.
Dopo essere entrato a far parte della Hitlerjugend, Jojo resta coinvolto in un incidente che ne deturpa il volto e lo estromette da compiti impegnativi. Dopo l'incipit frenetico che mette alla berlina l'idiozia e l'ottusità del Gleichschaltung, il film focalizza la sua attenzione sulla figura del giovane protagonista, la cui purezza, nonostante numerose storie mitologiche ed etnografiche sulla mostruosità degli ebrei, rimane pressochè intatta. Nel grigio delle città impoverite e devastate, Waititi porta in scena uno scontro tra i colori brillanti di una menzogna e della speranza, in lotta tra loro per prevalere l'una sull'altra. Da un lato, gli occhi di Jojo e di Yorki, suo unico amico, sono spalancati sul mondo con l'obiettivo di coglierne le tracce reali e di sentirsi coinvolti nel cammino della Storia; dall'altro, il patetismo delle storie che vengono loro raccontate ne obnubilano i pensieri e collocano i bambini in un mondo di mezzo, una sorta di Oz in bilico tra la fiaba e la tragicità ineliminabile della guerra. E, a risultare ancor più potenti di mitologie e narrazioni, questa volta, sono i legami umani, tracce che, se riconosciute e coltivate, possono essere sopite ma mai soffocate.
Le scarpe allacciate, gli occhiolini affettuosi, i gesti colmi d'amore e la singolare relazione stabilitasi tra Jojo e la ragazzina ebrea, ma anche il rapporto con il nemico, consentono al bambino di trovare uno spazio nel mondo che non somigli a una superficiale forma di galleggiamento ma che gli permetta di allontanarsi dal volere collettivo per abbracciare una volontà individuale e più sincera, perché vicina a un afflato autenticamente umano. Attraverso la forma narrativa del coming-of-age, Jojo riconosce le proprie fragilità e insicurezze e impara a fare i conti con i suoi sentimenti repressi, abbracciando forme di esistenza alternative e lontane dal sentire comune. La satira sul fanatismo, quindi, non si limita a decostruire e a mettere alla berlina ma suggerisce anche la possibilità di immaginare un altro futuro, a pochi passi dalla nostra porta(ta).
Quanto detto finora è sufficiente per considerare Jojo Rabbit un'operazione sincera e pienamente riuscita? Non del tutto. Questa scommessa vinta a metà, infatti, cerca di compiacere un po' tutti, anestetizzando la verve dissacrante dei primi 20 minuti attraverso la necessaria irruzione di una lezione morale ed etica che faccia maturare il giovane protagonista. Accontentandosi di lanciare poche stoccate nei momenti di maggiore drammaticità e nella ricerca della non omologazione, il film di Waititi si attesta su binari già ampiamente percorsi e si accontenta della convenzionalità - a partire da una messa in scena che aderisce ai più svogliati canoni da film indipendente. Jojo Rabbit è un gioco scoperto e meccanico che sceglie di abbattere il mostro attraverso la programmaticità di fondo delle dinamiche infantili. Nonostante questi limiti, una parentesi del genere può comunque ritenersi complessivamente riuscita.