Richard Jewell
Non è più un paese per eroi: Clint Eastwood prosegue il percorso aperto in "American Sniper" e "Sully" con un'elegia umanista in difesa degli ultimi "buoni", contro le narrazioni incontrollabili del Potere.
Il trend che la filmografia di Clint Eastwood ha seguito negli ultimi anni è troppo marcato, troppo caratterizzato per non pensare che con Richard Jewell si arrivi al culmine di un discorso voluto. A quasi novant'anni, western e polizieschi appartengono a un'altra era, così come la stagione dei melodrammi, dei war-movie e dei grandi biopic. Oggi, Eastwood ha trovato una nuova dimensione come ultimo paladino del cinema civile. Un cinema civile che non è ovviamente quello di Francesco Rosi, ma che finisce quasi per avvicinarlo (paradosso che disgusterebbe lui per primo) a un opposto geometrico come Ken Loach.
Come l'altro grande vecchio, Eastwood ha raccontato negli ultimi film le lotte di moderni eroi per mantenere la propria dignità umana in un contesto mediatico e istituzionale assetato di sangue. I protagonisti del suo cinema recente (e in questo si, è veramente unico) sono però quanto di più lontano da ogni logica commerciale del cinema americano moderno. Dopo decenni a cavallo del fantastico e del mito, Clint ha ora scoperto di avere a cuore la temuta, bistrattata working class americana: bianca, trumpiana, odiata dal mondo intero. Da ultimo grande vecchio reazionario in un'America in cambiamento, che neanche lo nomina più agli Oscar e in cui incassa sempre meno, Eastwood sembra essere rimasto l'unico ad avere ancora a cuore, con un attaccamento che ha del commovente, quelle fasce di popolazione che la Hollywood “buona” e liberal sembra oggi concepire esclusivamente come villain, come mostruosità da nascondere sotto al tappeto. Il film è l'elegia appassionata di un vecchio repubblicano per “la sua gente”, e per quanto di buono è ancora convinto che ci sia in essa.
Richard Jewell, come American Sniper, come 15:17 to Paris, ma sopratutto come Sully (del quale è pressoché un progetto gemello), racconta dunque di un moderno, fallace eroe, e della sua battaglia personale contro le stesse istituzioni che è votato a difendere. Nel 1996, l'addetto alla sicurezza del titolo (Paul Walter Hauser, indimenticabile) è impegnato a chiamata con le Olimpiadi di Atlanta. È uno dei centinaia di steward a lavoro per portare l'acqua e farsi insultare dagli ubriachi. Scoprirà per caso la bomba del terrorista Eric Rudolph, facendo evacuare la zona e sventando un potenziale massacro. Ma ai federali, ai giornali e al pubblico serve un colpevole: e proprio Richard si troverà accerchiato, costretto a provare la propria estraneità al crimine da lui stesso sventato
Consapevole del potenziale retorico e lacrimoso della vicenda, Eastwood affronta di petto l'ambiguità del suo eroe. Il lato patetico di Richard Jewell, della sua famiglia e della sua vita è presentato in bilico tra il comico e il rispettoso. Richard è quello che è: bianco, obeso, semi-disoccupato, fallito in tutti i suoi sogni di servire in polizia, dei quali conserva tuttavia una rigida, grottesca fiducia nell'ordine e nel legalismo. E' anche sessualmente represso, collezionista compulsivo di armi, divoratore di junk-food, appassionato di videogiochi. Non ha nessuno. Esattamente il tipo di soggetto che, nella percezione popolare, oggi imbraccerebbe un fucile Remington per fare strage in una sala di Joker; e che in un 1996 orrendamente attuale subisce un processo a priori concettualmente simile. Come sempre è stato nella sua vita (il film non è biografico, ma la magistrale sceneggiatura di Billy Ray rivela un mondo intero dietro il protagonista), Jewell si ritrova accerchiato dall'America bella, dei sex symbol (John Hamm e l'incredibile Olivia Wilde), sorridenti e predatorie maschere del Potere. Vogliono farne il mostro da sbattere in prima pagina, perché Jewell è già un mostro, una negazione incarnata del culto del successo e dell'affermazione economica. La sua guerra, sostenuta esclusivamente dalla madre (Kathy Bates) e dall'unico amico (Sam Rockwell), diventa una questione di riconoscimento individuale: “vi farò pure schifo, ma esisto. Non dimenticatemi”.
Ma Richard Jewell è maestoso anche perché, alla critica spietata della volatile opinione pubblica (cancel culture ante litteram? L'associazione è troppo palese per non essere cercata), Eastwood associa un percorso di presa di coscienza che ricorda da vicino il J'accuse polanskiano. Come nel capolavoro con Jean Dujardin, il film di Eastwood è prima di tutto la storia di un risveglio, e di un dolorosissimo disincanto; quello dello “sbirro”, della pedina fiduciosa e inserita, costretto dagli eventi a riconoscere il marcio di quelle istituzioni che hanno guidato la sua vita. E, riconoscendo la distinzione esistente tra il Paese e i suoi apparati giudiziari («loro non sono l'America»), a rimettere in discussione un'intera vita al servizio (o nell'adorazione passiva e ideologica) delle forze dell'ordine.
Richard Jewell è cinema civile per questo: a una critica dei mass media forse facile e già vista, a un legal thriller magari semplicista e tirato via, sposa il percorso privato di un protagonista straordinario. Come Dreyfus per la Francia, Jewell rappresenta secondo Eastwood tutto ciò che l'America potente disprezza. Ed è proprio scoprire questo disprezzo nei suoi confronti (personale, classista, sessuale) a costituire la vera tragedia di un eroe, e di un regista, che in quella bandiera sembra credere sempre di meno.