Love and Honor
Proseguendo nel solco della lezione di Ozu, Yamada chiude la sua trilogia sulla decadenza dei samurai concentrandosi sull’essenzialità della loro condizione umana.
«Se nel nostro secolo ci fossero ancora delle cose sacre, se esistesse qualcosa come il sacro tesoro del cinema, per me tutto questo sarebbe l’opera del regista giapponese Yasujirō Ozu», declamava con convinzione Wim Winders all’inizio di Tokyo ga, la sua appassionata dichiarazione d’amore nei confronti del grande autore nipponico. Se dunque di Ozu Yoji Yamada è oggi considerato, a giusta ragione, il maggiore erede – dopo esserne stato assistente alla regia, aver speso gran parte della sua vita nei leggendari studi Shochiku e aver “rifatto” nel 2013 il suo capolavoro, Viaggio a Tokyo (Tôkyô monogatari, 1953) – il suo cinema non può non aver conservato, di questo “sacro tesoro del cinema”, almeno qualche fulgida scintilla. Per convincersene pienamente basterebbe anche solo prendere in esame la sua “trilogia dei samurai”, che con Love and honor (Bushi no Ichibun, 2006) trova la sua ideale conclusione, dopo Il crepuscolo del samurai (Tasogare Seibei, 2002) e The Hidden Blade (Kakushi ken oni no tsume, 2004).
È qui, tra le immagini di questi tre film, che risuona, con una certa evidenza, il legame con la forza malinconica della poetica di Ozu, la consapevolezza della transitorietà della vita e del “pathos delle cose” (il mono no aware tanto caro alla cultura giapponese), la volontà di raccontare un mondo in disfacimento (il Giappone e la famiglia tradizionalmente intesa all’alba del boom industriale e tecnologico in Ozu, la vita dei samurai durante il loro “crepuscolo”, nella tarda era Tokugawa in Yamada), la cura del dettaglio; l’essenzialità, forse, sopra ogni cosa.
Sia Ozu che Yamada non hanno mai avuto bisogno di spettacolarizzare la realtà per dire tutto ciò che d’essenziale c’è nella vita. È così, allora, che Yamada può permettersi di lavorare all’interno del genere jidai-geki e di sovvertirlo, focalizzandosi sulla routine domestica del samurai piuttosto che sulle sue missioni per raggiungere la gloria, dimostrando di aver davvero assimilato fino in fondo la lezione minimalista del maestro Ozu. È così che il protagonista di Love and Honor, Shinnojo, un samurai di basso rango, ridotto ormai a fare da assaggiatore di cibarie per la sicurezza del lord locale e divenuto cieco per aver assaporato un mollusco velenoso nell’assolvimento dei suoi doveri, può affrontare un duello nei pressi di una vecchia stalla cenciosa e abbandonata, che a livello visivo e coreografico di grandioso non ha assolutamente nulla, spostata com’è, la battaglia, sul piano psicologico e morale.
Non servono grandi set né effetti speciali (di cui i jidai-geki di quegli anni, sono ricolmi, da quelli prodotti ad Hollywood, come L’ultimo Samurai, alle opere di Takeshi Kitano, Takashi Miike o Ryuhei Kitamura). L’attenzione è tutta lì, all’amore e all’onore, come dice il titolo stesso del film, non alle lame né alla battaglia ma piuttosto al bushido, al rispetto dei valori degni di un guerriero coraggioso e giusto. Shinnojo si batte solo ed esclusivamente per vendicare la dignità della sua Kayo, moglie devota troppo disposta al sacrificio per volersi accorgere del precipizio in cui si sta lasciando andare. Non c’è desiderio di gloria o di riscatto nella sua decisione, solo il desiderio di ripristinare l’equità e ottenere “soddisfazione” attraverso un processo per combattimento.
Enormemente famoso in patria per la fortunatissima serie con protagonista Tora-San (Otoko wa tsurai yo, 1969-1995) – a detta di molti storici del cinema la serie cinematografica più longeva di sempre –, Yamada ha usato la trilogia del samurai, basata sulle storie di Shuhei Fujisawa per rileggere la storia del suo paese con uno sguardo più articolato, sobrio e meno sentimentalistico, in cui, nel pieno spirito di quel neo-umanesimo rappresentato dal cinema di Kore'eda (il cui Hana, non a caso, racconta la storia di un “samurai riluttante” a uccidere il killer di suo padre) o di Tsukamoto (un regista sicuramente più interessato all’azione e, soprattutto, all’espressività dei corpi e della macchina da presa, ma comunque consapevole della necessità di sottoporre a critica la storia violenta del nazionalismo giapponese) al centro c’è l’uomo, con le sue debolezze, incoerenze e idiosincrasie, ma anche con i suoi eroismi quotidiani, la sua dignità, la sua forza di volontà.
Sono film character driven, quelli di Yamada, fatti di protagonisti comuni, senza pretese (ma non senza sogni, aspirazioni, ideali), che affrontano problemi di lavoro, ineguaglianze, iniquità, complicate relazioni famigliari; opere che riaffermano l’importanza della famiglia e dell’individuo, soprattutto della donna, di cui Yamada offre una rappresentazione progressista, pur nel quadro del machismo, storicamente determinato, del sistema feudale giapponese. Del resto in Love and Honor è Kayo ad agire per conto del marito cieco, a guidarlo e a proteggerlo, anche a costo di qualche bugia, presto esibita ed esplicata. È l’amore per lei, per il suo onore, a muovere le fila della storia.
La grandezza di questo prezioso maestro nipponico, alla cui filmografia Fuori Orario ha giustamente tributato un omaggio, sta nel riuscire a mantenere a bada ogni deriva sentimentalistica senza però rinunciare ai sentimenti, confidando nell’intelligenza e nella sensibilità dello spettatore. Come Ozu gli aveva insegnato.