Terminator - Tornare al sé
L'eterno ritorno di un'icona della fantascienza: è vera gloria? Dai fasti di James Cameron all'accidentato percorso di un franchise in cerca d'autore
Con l’uscita del nuovo Terminator: Genisys nelle sale, la saga iniziata da James Cameron nel 1984 arriva alla sua quinta espansione (sesta, se consideriamo anche lo sfortunato esperimento televisivo delle Sarah Connors Chronicles). Il tutto in barba a una perfetta completezza d’autore che aveva caratterizzato il dittico inaugurale realizzato dallo stesso Cameron, con il capostipite e il memorabile sequel del 1991: la visione delle scene tagliate del primo Terminator (presenti nelle varie edizioni DVD e Blu-Ray italiane) è infatti già sufficiente a chiarire come gli spunti poi affrontati circa dieci anni dopo ne Il giorno del giudizio non fossero espansioni a posteriori dell’idea originaria, ma parti che già erano in nuce nello stesso primo film – in particolare l’idea che i resti del primo Terminator costituiscano il seme che porterà alla creazione del malvagio supercomputer Skynet e il desiderio di Sarah Connor di sabotare gli impianti della Cyberdine Sistem per impedire il futuro olocausto nucleare.
Cameron, insomma, lavorava su un universo già perfettamente definito in tutte le sue possibili implicazioni spazio-temporali, riservandosi, con il lavoro sul sequel, una più ampia trattazione sul cosa significa essere umani in un mondo replicato dalla tecnologia: un tema che il regista ha poi portato avanti sino ad Avatar con il geniale e reiterato rovesciamento di prospettive fra l’alieno e l’umano e fra il corpo di carne e quello ricreato in laboratorio. Tutto questo, naturalmente, senza dimenticare la sfida estetica che ripropone i medesimi temi della riconoscibilità e della definizione del sé sullo sfondo di una rappresentazione che oscilla fra il corpo “sporco” di sangue e metallo e quello fluido e “pulito” della nuova era digitale.
L’aspetto interessante delle prosecuzioni germinate all’indomani dell’abbandono di Cameron è dato principalmente dal sostanziale abbandono di una tale cifra speculativa, capace di sperimentare sul versante tematico ed estetico. Al suo posto, subentra una rappresentazione puramente ludica e orientata a portare sempre avanti il gioco puramente narrativo dei paradossi temporali e delle riscritture della timeline. Tutto questo mentre la saga arrivava a pescare dai suoi stessi epigoni: Terminator 3 – Le macchine ribelli appare come un inerte cascame della mitologia cameroniana, che nel nome della letale Terminatrix attinge dalla saga cyber-filosofica di Matrix dei fratelli Wachowski – la quale, per inciso, in un mirabile paradosso temporale, potrebbe essere considerata come l’autentico terzo capitolo della storia di James Cameron, con le macchine che hanno preso possesso del pianeta e lottano contro l’umanità in una sfida che è tutta giocata sul terreno della percezione e della rappresentazione di un mondo digitale.
Si verifica in questo modo una torsione prospettica per effetto della quale l’originale si pone in posizione d’inferiorità rispetto all’epigono. Qualcosa del genere accade anche con il Terminator Salvation di McG, dove il gioco dei rispecchiamenti è orientato tanto all’originale (il corpo digitale di Schwarzenegger è ripreso da una scansione dell’attore nel primo capitolo) quanto alla fusione di forme sviluppata nello stesso periodo da Michael Bay con la saga di Transformers (con tanto di accuse velate di plagio fra i due registi).
Da un lato, appare dunque evidente come la percezione del sé non sia più modulata nel senso dell’interrogazione etica e artistica sul mondo e la sua rappresentazione, ma unicamente in una prospettiva commerciale: quella di Terminator è ormai una saga in cerca di modelli da cui attingere, per l’evidente percezione di un modulo estetico e tematico che evidentemente si percepisce già all’origine come non più espandibile perché completo. Per poter mantenere la sua attualità, insomma, il cyborg deve riguadagnare un tempo presente che lo vede ormai come icona sorpassata: un destino che, in una interessante pulsione metanarrativa, si sposa alla carriera ormai declinante dello stesso Arnold Schwarzenegger.
Questa continua ansia da prestazione, unita ai continui paradossi di una serie in cerca d’autorialità (ma senza che i vari capitoli siano effettivamente lasciati nelle mani di veri autori), rende le ultime terminazioni un divertente terreno per comprendere le mutazioni in atto nell’industria dell’intrattenimento a cavallo del nuovo millennio. Assistere all’accidentato percorso del cyborg, che va di pari passo con l’invecchiamento della sua star, significa porsi in una posizione privilegiata rispetto alle esigenze di un modulo blockbuster (e di un’industria spettacolare) orientato ora all’auto-fagocitazione delle proprie dinamiche, ora all’apertura a modelli seriali di più ampio respiro. Tutte caratteristiche che, a giudicare al momento dai soli trailer, si ritrovano anche nel nuovo capitolo, un po’ remake, un po’ ricombinazione degli elementi già noti verso nuove strade, nella speranza di aprire ulteriormente il fronte delle prosecuzioni. Resta da capire a quale modello altro si sia attinto stavolta!
In ogni caso, si può vedere in tutto questo o un clamoroso caso di accanimento terapeutico o, in positivo, un tentativo di rendere la saga di Terminator, nel suo complesso, un velleitario terreno di sperimentazione. Dall’originalità, al plagio, alla cross-medialità, insomma, non si può certo affermare che il percorso tracciato finora non abbia riservato sorprese.