Dossier Steven Spielberg / 11 - Jurassic Park
Evoluzione e rivoluzione: Spielberg abbraccia il digitale trasformandolo nell'esperienza con cui reimparare a vedere il cinema
Un grande artista come Steven Spielberg sa bene che ogni rivoluzione ha bisogno di poggiare sul conforto del noto, per non spaventare, ma introdurre invece lo spettatore nel nuovo mondo che gli si offre: per questo motivo la straordinaria operazione teorica compiuta con Jurassic Park poggia su una struttura narrativa che rifà grossomodo quella de Lo squalo. C’è un incipit che mette lo spettatore in guardia circa la fragilità degli equilibri nell’universo che si va a disvelare, e c’è il livello del “comando” che finge di non vedere il problema, salvo poi esserne travolto, mentre la salvezza della situazione è affidata a un eroe suo malgrado. Un individuo refrattario ma di solidi principi, in grado perciò di incarnare l’autorità, ma che nel gioco delle parti è un po’ defilato, e che, nel corso dell’odissea, imparerà anche a “evolvere” dal suo stadio iniziale, superando qualche paura recondita – il nuoto nel caso di Brody, l’avversione ai bambini per il suo omologo dottor Grant.
L’evoluzione è dunque il tema che coinvolgerà con forza un po’ tutti i personaggi: dal citato Grant agli stessi sauri, destinati a superare ben presto la cattività e persino i limiti congegnati dai genetisti per controllarli e non farli riprodurre. Al contrario, essi si apriranno presto alla vita e, forse, alla fine evolveranno davvero in uccelli, come da ipotesi più volte evocata nella storia. Persino Hammond dovrà ammettere suo malgrado gli errori, ma la storia con lui sarà comunque tenera, non condannerà il suo impeto, perché di tutte le figure umane che attraversano il Jurassic Park, lui è l’unico a possedere una visione che va già al di là del noto e che spinge a forzare i limiti per superare le barriere: se dobbiamo pensare all’alter ego di Spielberg nel film possiamo certamente rifugiarci nella solidità garantita da Grant, che è il garante della dirittura morale della ricerca; ma il cuore del regista in parte sarà anche diviso con Hammond il visionario, colui che non si accontenta e continua a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Non a caso a interpretarlo c’è un regista, Richard Attenborough, e sempre non a caso, la prima parte lo vede quasi unico protagonista e demiurgo, figura che fa e disfa, illustra il mondo che ha creato, e si clona come i suoi dinosauri, grazie alla nuova meravigliosa tecnologia digitale.
Proprio il digitale è il punto dirimente dell’operazione compiuta da Spielberg, che non si limita a usarlo come innovativo tool per un facile spettacolo, ma ne abbraccia le potenzialità e le conseguenze fino in fondo, cercando di trasformare la visita al parco nell’ingresso in una nuova modalità di fruizione del cinema, un’esperienza che permetta allo spettatore di reimparare a vedere, come prima di lui aveva fatto George Lucas con Guerre Stellari e dopo farà ancora James Cameron con Avatar. Con lucidità invidiabile, Spielberg imbastisce una disfida di punti di vista, dove l’intera avventura si sposta da un piano verbale a uno strettamente visivo: le parole àncorano la vicenda alla concretezza di una scienza che non è mai capace di dominare le forze in campo. Può definirne i parametri, certo, ma non previene il disastro, né fornisce soluzioni al proliferare delle energie che i sauri riversano su cose e persone. Restano quindi un teorizzare di contorno, che sembra inseguire la realtà più che definirla e che, soprattutto, sembra unicamente fornire supporto a personaggi altrimenti già superati dall’avvento del nuovo – ipotesi, quest’ultima, assolutamente evidente nel “vecchio” archeologo Grant, ma evidente anche nel matematico Ian Malcolm di Jeff Goldblum, forse il più consapevole teoricamente di quanto sta per accadere, eppure l’unico che ne patisce in maniera concreta i disagi attraverso le ferite che sopporta sul corpo, e che lo relegano progressivamente in secondo piano. L’unica soluzione è evolversi e adeguarsi a una narrazione nuova.
Il cinema digitale è dunque questione altra, elegge l’inquadratura a suo privilegiato campo di battaglia e imbastisce in essa dialettiche inedite. Prendiamo la prima apparizione del brachiosauro: essendo la creatura in campo aperto, i protagonisti dovrebbero avvistarla già da lontano. Eppure se ne accorgono quasi all’improvviso, come un corpo che si sia materializzato davanti a loro, e che in effetti esiste nel momento in cui lo sguardo viene diretto dalla sua parte (Grant gira materialmente la testa a Ellie Sattler perché veda la creatura) e prepara così il terreno all’inquadratura immediatamente successiva, a quel controcampo che rivelerà anche a noi la meraviglia in tutto il suo splendore (con l’ausilio dell’ennesimo score capolavoro di John Williams).
Oppure prendiamo la non meno iconica apparizione del T-Rex: sette incredibili minuti in cui la bestia letteralmente scompare fra le inquadrature. Un momento c’è solo il cavo elettrificato che si spezza, e nel fotogramma successivo lui è lì, imponente e presente, pronto a prendere possesso dell’immagine e dell’immaginario. C’è una dialettica vera e propria che Spielberg imbastisce all’interno delle inquadrature e fra i singoli fotogrammi: c’è infatti un progressivo oscillare fra una fisicità presente e una qualità più trasparente, garantita dalla fotografia del Maestro Dean Cundey (genio teorico, l’uomo che, non a caso, aveva sperimentato simili meccanismi già con Halloween e Fog). I corpi spesso sembrano affini ai disegni che adornano le pareti del centro visitatori del parco, piatti e quasi “sottili”, ma poi li vediamo soffrire, mutilarsi, rivendicare tutta la loro presenza. La pesantezza concreta del tirannousaro è anticipata dal magnifico gioco di increspature sull’acqua: può esserci mai immagine più lieve per annunciare la forza più distruttiva?
In effetti, quello che si palesa sotto i nostri occhi è davvero un incredibile gioco di equilibri: c’è l’avventura catastrofica, che però è anche uno straordinario saggio di sense of wonder, capace di riverberare lo sguardo bambino con cui Grant – uomo che conosce la materia e ne ha già analizzato tutte le possibilità – affronta la novità dei dinosauri clonati. C’è la crudezza degli attacchi dei rettili introdotta da una sequenza animata degna del Bruno Bozzetto di Allegro non troppo. E c’è la più straordinaria operazione di investimento sulle possibilità espressive offerte dal digitale, all’interno di una cornice che condanna gli eccessi e invita a riflettere sul potere offerto dalla novità. La vera sfida è fra questi estremi, sintetizzata da un ribaltamento di ruoli che porta gli umani sempre più a fuggire nel fogliame, laddove i dinosauri arrivano a riconquistare la Terra e il centro dell’inquadratura, in un raffinato gioco di spazi che rende il parco un’entità ben definita ma in continua mutazione, dove ogni location snocciola nuove possibilità espressive. E’ un gioco di coordinate fra l’alto e il basso, con una mdp che inventa sempre nuovi punti prospettici e i corpi di carne e quelli digitali si inseguono e si traggono in inganno con le superfici a specchi. La caccia, così, diventa una mera questione di vedere: i sauri non sembrano avvertire odori, anche quando sfiorano gli umani, si preoccupano soltanto che la loro figura sia più o meno in movimento (e dunque visibile) per attaccarla. Tutto questo fino a un finale dove, dal secondo piano, i rettili arrivano al primissimo piano (nello scontro fra i Raptor e il T-Rex), occupando l’inquadratura in larghezza e profondità. E conquistando definitivamente il loro posto nell’immaginario.