L'uomo che uccise Don Chisciotte
Una riscrittura dolorosa di Cervantes, un film che parla di sé stesso e dei suoi lunghi fallimenti, dell’ossessione per il cinema e degli effetti che questa ha non sul sognatore ma su chi gli sta intorno.
Traballanti, goffi, letteralmente gargantueschi. Tra i pochi frammenti esistenti dell’originale L’uomo che uccise Don Chisciotte ci sono proprio loro, i celebri giganti, raccontati in Lost in Mancha come tracce di ciò che sarebbe stato il film di Terry Gilliam nella sua versione del 2000. E di quei giganti, nel documentario di Keith Fulton e Louis Pepe, resta soprattutto l’entusiasmo di Gilliam, l’emozione infantile e ancora, nonostante tutto, innocente del fare il cinema come si fa una casa dei giochi. Fa un certo effetto quindi iniziare questo Don Chisciotte e scoprire nelle sue prime immagini che quegli stessi giganti, riadattati ma visivamente identici, sono diventati oggi gli elementi di un set pubblicitario, gli ingranaggi di un progetto commerciale (mal) diretto dal regista in crisi Toby Grisoni (Adam Driver). Lo stesso Don Chisciotte è ora un soggetto da spot, una figurina appiattita in un mondo dello spettacolo che appare presto soffocante e privo di umanità.
Fin dalle sue prime battute, L’uomo che uccise Don Chisciotte svela una tristezza nello sguardo difficile da ignorare, come un film che in qualche modo non può che parlare di sé stesso e dei suoi lunghi fallimenti, della sua storia di tentativi e sconfitte che si chiudono oggi, quasi a trent’anni di distanza, con un lieto fine che porta comunque su di sé i segni di una vita travagliata. Questo Don Chisciotte è di certo un film di Gilliam – e la parte centrale del racconto, così caotica e splendida nel mescolare adattamento, finzione, illusione, lo grida a piena voce – ma è anche un film amareggiato, ferito, che abbandona la dimensione più giocosa e anarchica dell’adattamento a là Gilliam, per raccontare soprattutto il sogno del cinema e i danni che quest’infatuazione può infliggere a chi il cinema lo fa e se ne innamora lasciandosi irretire, per poi dover comunque tornare a confrontarsi, brutalmente, con il dato reale. Questa malinconia (che data la storia del film forse mal nasconde un senso di colpa autobiografico dello stesso Gilliam) traspare dall’evoluzione del personaggio di Toby, non più novello “americano alla corte di Don Chisciotte” come doveva essere nella sua prima versione (ispirata appunto al romanzo di Mark Twain), ma saccente ed egocentrico pubblicitario che ha iniziato il suo percorso con un film dedicato proprio alla creatura di Cervantes, in un tempo in cui il cinema era ancora un gesto magico intriso di innocenza e illusioni.
Con un gioco tra passato e presente, Gilliam ci riporta ai giorni di quell’esordio, recuperati come un’età dell’oro la cui controparte di oggi è però un incubo di disillusione, abitato da una giovane comparsa che ha fallito nel divenire una stella e si è trovata ad essere una escort, e il protagonista invecchiato nella pazzia e convinto di essere, a tutti gli effetti, il Don Chisciotte de la Mancha. E di queste vite distorte il colpevole è proprio Toby, il cui fare cinema diventa un gesto condiviso con amici e sconosciuti ma poi sottratto a fine riprese, con un’incuranza totale per gli effetti che quell’esperienza ha avuto nei percorsi delle persone che si sono lasciate coinvolgere dalla sua passione. Così l’equilibrio cercato da Cervantes tra incoscienza e senso del reale si deforma sotto una lente che svela i lati oscuri dell’ossessione, le conseguenze più nascoste che non danneggiano il sognatore ma chi gli sta intorno.
Per questi motivi L’uomo che uccise Don Chisciotte ci appare molto importante nella carriera di Terry Gilliam, abituato da sempre a trattare temi come la sanità mentale e la tensione opprimente nel rapporto tra individuo e società, ma qui alle prese anzitutto con sé stesso, le sue scelte personali e l’impatto che queste hanno sulle persone che lo circondano. Una riflessione che si intreccia al classico tema di Cervantes sul legame necessario tra sogno e senso del reale, in un dialogo originale, complesso e probabilmente doloroso con la materia prima offerta da quel romanzo straordinario.