Timbuktu
Racconto morale di grande grande forza cinematografica, Timbuktu è una rappresentazione non autorizzata della vera quotidianità jihadista.
Dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, la città di Timbuktu viene occupata nel 2012 dall’avanzata jihadista. Per un anno quello che era stato uno straordinario sito di scambi culturali e commerciali diventa ostaggio di una logica massimalista che impone obblighi e divieti. L’occhio dei media è puntato soprattutto sugli ostaggi occidentali rimasti in trappola nella città, ma attorno a loro si consumano storie di orrore quotidiano. Come quella di due genitori di appena trent’anni lapidati dai jihadisti perché non sposati, una vicenda di sangue filmata dai terroristi e diffusa online, ennesimo video virale di una guerra combattuta sempre più con le immagini. Timbuktu di Abderrahmane Sissako nasce dalla necessità di riportare l’accaduto, lo trasfigura in un racconto corale ambientato durante i giorni dell’occupazione, una rappresentazione laica e umanista che proprio in relazione a quelle immagini trova la sua immensa forza.
Facebook, twitter, istagram sono solo gli aspetti più evidenti di una rete in costante cambiamento. Nell’era della condivisione universale l’uso virale dell’immagine diventa un’arma, una risorsa dal potere decisivo. Non a caso l’aspetto forse più disturbante dei video rilasciati dall’Isis è la loro fattura prettamente cinematografica, un’attenzione al linguaggio che denota la consapevolezza di quanto sia importante il controllo della propria rappresentazione iconica. Rispetto alla camera fissa, sporca, probabilmente analogica, utilizzata dai primi talebani per i loro messaggi, oggi la comunicazione dell’Isis segue logiche di marketing atte ad incidere nel profondo il pensiero occidentale. Non sorprende allora l’avversione che l’autoproclamatosi Stato Islamico ha nutrito nei confronti del film di Sissako, che dei jihadisti restituisce un’immagine umana e priva di filtri. Prima di essere un racconto di denuncia di grande sensibilità, intelligenza e morale, Timbuktu è anzitutto una rappresentazione non autorizzata della vera quotidianità jihadista. I terroristi raccontati da Sissako non sono né i fanatici urlanti e mostruosi del cinema americano né i protagonisti di videoclip di morte come voglio autoproclamarsi loro stessi, ma uomini, terribili sì ma intrappolati all’interno di una routine spesso patetica, noiosa, infantile. Non possono fumare ma uno di loro consuma sigarette di nascosto, credendo di non essere visto mentre tutti lo tollerano. Altri passano le loro giornate a girare a vuoto per le strade della città, imponendo la loro versione della Shari?ah ai passanti che trovano. Il terrorista jihadista di Sissako torna ad essere umano, ma questo non significa giustificarne le azioni. Sissako piuttosto, con uno scarto morale forse impossibile per un cineasta occidentale, li fotografa veri in quanto fannulloni qualunque, perditempo, falliti reinventatisi terroristi di campagna, capaci di terribili azioni ma anche di inaspettate gentilezze.
Spesso la posizione secondo la quale le prime vittime del terrorismo di matrice islamica siano gli stessi mussulmani dei paesi colpiti viene tacciata di buonismo e cecità. SIssako invece ci conduce per mano nel cuore di quella che è da ogni punto di vista un’invasione, un’occupazione militare che lascia poco margine di manovra a tentativi di ribellione. La violenza è assoluta e “divina”, non conosce pietà, fraintendimenti o giustificazioni, punisce chi si mantiene infedele non sottomettendosi ai nuovi dettami religiosi. Ecco così che musica, sigarette e sport diventano reati punibili con frustate e lapidazioni, come i guanti e i veli per le donne sono ormai condizioni non sindacabili. Come in ogni dittatura, la violenza di cui si fanno attori i terroristi è virale, è atta a moltiplicare la propria ideologia nei corpi che pretende di sottomettere, a controllare i comportamenti e le abitudini. A cercare di resistere c’è il pastore del deserto Kidane, che assieme alla moglie Satima e alla figlia Toya vive fuori dalla città e dall’influsso dei talebani, fino a che un grave incidente lo pone soggetto alla Shari?ah. Attorno a lui e la sua famiglia Sissako ci racconta la nuova vita di Timbuktu, con una narrazione corale che tocca diversi personaggi tra abitanti locali e terroristi. Ma la meraviglia che suscita il film nasce dal modo in cui queste vicende vengono riportate sullo schermo. SIssako riesce ad restituire un approccio didattico nel senso più alto del termine (quindi morale) che ricorda molto l’umanismo etico del cinema di Rossellini, sul quale esercita scelte di regia e di montaggio altamente poetiche ed evocative. Non risparmia nulla Sissako, la lapidazione e la caccia dei ribelli e la morte colmano spesso lo schermo con il loro orrore, tuttavia ancor più di questo rimane l’immagine di una partita di pallone giocata con una palla fantasma, perché lo sport è vietato ma non l’immaginazione. Cinema come potere di resistenza, cinema per raccontare con sguardo morale il mondo, cinema per rispettare e onorare la forza del coraggio personale, la forza di rimanere umani nonostante tutto.