Che la divisione lungo il 38° parallelo sia uno dei temi principe del cinema sudcoreano è cosa ovvia e nota da tempo. Più interessante è vedere come negli ultimi anni, nei quali l’industria cinematografica della Corea del Sud ha subito un cospicuo incremento, all’aumentare delle produzioni nazionali sia uscito un ventaglio di film di genere incentrati sull’argomento, non più riservato all’elaborazione strettamente autoriale. Il tema è ormai affrontato in tutti i registri, dall’action spionistica al film bellico passando per la commedia. E’ da questa situazione che parte Red Family, che di tali generi sembra essere un esperimento di commistione tra il coraggioso e l’insensato.
L’idea di partenza è semplice ed efficace: spinto dalle minacce fatte ai loro cari, un gruppo di spie nordcoreane vive in incognito nel Sud, spacciandosi per una famiglia normale, eseguendo omicidi e altri compiti per la causa, fino a che la vicinanza con la sgangherata ma autentica famiglia di vicini incrinerà la loro capacità di portare avanti una vita fatta solo di finzione. Prodotto, scritto e montato da Kim Ki-duk, il progetto appartiene evidentemente al regista di Pietà e Moebius, nonostante la regia sia stata affidata al di lui allievo Lee Ju-hyoung. Di certo di Kim rimane la totale assenza di un margine politicamente corretto (la “famiglia” in questione non esita ad uccidere diverse persone, compreso un neonato) a dimostrare la maturità di un cinema nazionale in cui anche una commedia può dirigersi in territori così oscuri.
Intriso di humour nero ma anche di cupa e disperata violenza, Red Family è davvero un oggetto curioso e inclassificabile, evidentemente nazionalpopolare nella sua retorica didascalica e nelle improvvise immersioni nel dramma più smielato, ma anche spietato nel tratteggiare caratteri umani ormai svuotati dal potere e privi quasi del tutto di speranza – ne esiste ancora un barlume ma è concessa solo alle nuove generazioni, come suggerisce il bel finale del film. Anche il ritratto della famiglia sudcoreana autentica non è facilmente classificabile, diviso com’è tra demistificazione e idealizzazione, mentre i temi più urgenti dell’agenda politica riguardo la divisione vengono giusto accennati, e lasciano un deciso sapore di incompletezza. Comunque, se il tono quasi schizofrenico della narrazione solleva qualche dubbio (specie di reciproco disinnesco) ma rimane curioso e interessante, è sul versante registico che Red Family ci sembra davvero insufficiente, ancorato ad un’estetica televisiva piatta e priva di vitalità. Lee Ju-hyoung riesce a dirigere bene la sua squadra di attori – tutti alle prese con personaggi in cui è alto il rischio di andare sopra le righe – ma per quanto riguarda la visione il linguaggio registico rivela poca padronanza tecnica e soprattutto nessuna idea personale di cinema. Come primo film può anche andare, ma ora Ju-hyoung dovrebbe davvero dedicarsi ad un progetto più personale.