Tracks di John Curran racconta la vera storia di Robyn Davidson e la sua avventura straordinaria (ma quasi mai solitaria) nel deserto australiano: un viaggio a piedi compiuto a poco meno di trent’anni, un cammino insidioso che procede per quasi tremila chilometri in compagnia di un cane e di quattro cammelli. Robyn accetta a malincuore di farsi raggiungere in alcune tappe da Rick Smolan, fotografo per National Geographic, in cambio dei soldi necessari per il viaggio. Forse l’aspetto più interessante del percorso sta nell’esclusione di qualsiasi presupposto iniziatico, nella negazione di ogni prospettiva di maturazione o cambiamento: Robyn vuole, prima di tutto, passare del tempo da sola, lontana dall’inquinamento quotidiano di parole, incontri e situazioni. Lontana da un passato che non riesce a rimuovere. Curran lavora soprattutto sulle difficoltà dei rapporti umani, sul miraggio di una vita solitaria ed ancestrale. Miraggio perché la società da cui cerca di fuggire la insegue ovunque, senza permetterle alcuna possibilità di reale evasione: il sogno incontaminato non esiste più. Nessun Into the Wild, l’eremita è morto (sarà proprio la Robyn infatti a pubblicare un bestseller sulla sua avventura, segno evidente di una piena reintegrazione nella società). L’intuizione che pareva intrigante era, almeno sulla carta, il contrasto tra il corpo (e la tenacia) di una donna e gli spazi infiniti, monotoni (nel senso più grandioso del termine) e inquietanti del deserto. Non a caso Curran si serve del volto candido, fragile e intenso di Mia Wasikowska, una tra le migliori attrici della sua generazione. Ma c’è qualcosa che non funziona.
Per raccontare la morte del mito, bisogna prima vivere il mito. O meglio ancora: per raccontare una contaminazione (quella di una civiltà sempre più invadente) bisognerebbe credere o sentire ciò che c’era prima. E non basta qualche meraviglioso paesaggio, un crepuscolo malickiano o un’alba mozzafiato. Quello che non si riesce a percepire è quel senso di solitudine estrema, di paura ancestrale di chi ritrova l’abisso davanti agli occhi. Manca la dimensione dell’oltre, dello sconosciuto e dell’indefinito, la sensazione grandiosa ma insieme terrificante della lontananza. Se il controcampo mediatico è convincente, si viene a perdere la dimensione autentica dell’ignoto. E quando il film decide di identificare l’ignoto con l’individuo, ecco che emergono allora i peggiori difetti: quelli di una convenzionalità narrativa ormai stantia, sempre preoccupata a intercettare in un determinato ghost l’origine del conflitto. Il flashback, come unica causa di un crollo (e di un destino) è l’ennesima banalizzazione di un carattere, ma è una tendenza che ormai ha fatto scuola, bidimensionando i personaggi e rendendoli facili pedine del solito gioco di causa ed effetto. Perfino il rapporto tra la Robyn e il fotografo, che poteva essere interessante e ricco di conflitto, ha il suo climax in un bacio tanto gratuito quanto prevedibile (cui segue l’invisibile ma ovvio rapporto sessuale). Come se ci fosse un’unica semplice soluzione di conciliazione tra due mondi. Un’operazione mancata, perché è come se Curran fosse sempre all’inseguimento di quel film che avremmo voluto vedere ma che poi non c’è. Oltre i paesaggi meravigliosi, oltre i cieli stellati e la musica onnipresente, non esiste un vero e proprio percorso di smarrimento. Grave per un film ambientato nel deserto.