Crimson Peak
Del Toro cerca di unire gioco cinefilo e melodramma ma l'operazione non riesce, se non come esperienza visiva e racconto di certe pulsioni ottocentesche.
Secolo della scienza e della tecnica, l’Ottocento è certo sinonimo di Positivismo, esposizioni universali, progresso e invenzioni, non ultima quella del cinematografo. Tuttavia all’ombra del nuovo sapere scientifico torna a fiorire anche la tradizione del gotico letterario, che proprio in quegli anni regala molti dei suoi capolavori. Storie di fantasmi e mostruosità notturne diventano così il mezzo con cui affrontare quelle pulsioni irrazionali che altrimenti non troverebbero spazio all’interno dei dettami positivisti.
Questa corrente torna a fluire soprattutto con l’età vittoriana, i cui rigidi sistemi di morale, comportamento e apparenza favoriscono anche il ritorno di una letteratura romantica caratterizzata dalle forti emozioni e dagli esiti spesso tragici. E non a caso, perché amore melodrammatico e terrori notturni sono due facce della stessa medaglia, emanazioni di quell’inconscio ribollente ed emotivo che l’era positivista ha cercato di inquadrare.
Da quest’intreccio di passioni forti nasce Crimson Peak, tentativo di Guillermo Del Toro di sintetizzare tale sincretismo all’interno di una colossale artigianalità di genere che omaggi la tradizione del gotico letterario e cinematografico.
Dal cognome del personaggio di Mia Wasikowska (rubato a Peter Cushing, volto storico della Hammer) alle ombre filiformi formate dai fantasmi alla luce delle lanterne, Crimson Peak dissemina la sua narrazione di riferimenti e citazioni dirette, suggestioni che cercano un costante dialogo con uno spettatore smaliziato e chiamato al gioco.
Da questo punto di vista Crimson Peak sembra se possibile ancor più manifesto di Pacific Rim, per Del Toro il cinema è l’illusione ludica di una colossale casa degli specchi, costruzione che qui diviene parte integrante della storia. La magione nel Nord dell’Inghilterra in cui viene trascinata la giovane Edith Cushing è infatti una casa-corpo divorata lentamente da un’argilla color sangue, fluido vermiglio che emerge dalle assi del pavimento, cola dalle pareti, scorre e batte nelle intercapedini dei muri. Come topi lovecraftiani fuorusciti da un abisso sepolto sotto le fondamenta, l’argilla anima e corrode la casa e la vita di chi la abita, prestandosi a nasconderne i segreti più lugubri.
Sorretto da un set barocco e raffinatissimo, volutamente finto e assieme imponente nella sua grandezza, Del Toro può navigare il film divertendosi a portare all’estremo il suo rapporto con lo spazio scenico, da sempre inteso in termini plastici e tridimensionali. Il risultato è una magniloquenza visiva, propriamente illusionistica, che lascia certamente il segno, ma al cui interno cresce una narrazione talmente rigorosa da risultare banale, scontata. Come sempre però non è certo la classicità in sé a divenire limite, ma il modo in cui questa si colloca all’interno del discorso filmico. Cosa che qui avviene in modo sconnesso e incoerente.
Come detto, con Crimson Peak Del Toro non resiste alla tentazione di rievocare la storia del cinema, di far rivivere il classico più fedele anche a rischio di una sua riassuntiva semplificazione; tuttavia dall’interno di questa prospettiva – inevitabilmente rivolta allo spettatore disposto a giocare con la finzione e il trucco del cinema attraverso la propria consapevolezza cinematografica – Del Toro cerca di arrivare al melodramma, al racconto amoroso più vero e intenso. In questo modo ne esce un film che da una parte ci mostra la meraviglia della finzione ma dall’altra ci chiede di credere a sentimenti sottolineati e urlatissimi, un doppio passo che rischia più volte il ridicolo involontario per aver collocato lo spettatore fuori della narrazione.
Anche per questo i motivi di maggior interesse del film – che al netto di tali problemi strutturali resta una visione meritevole, non fosse altro per le suggestioni e certi improvvisi, riuscitissimi, sprazzi di violenza – i motivi dicevamo sono rintracciabili in quanto scritto in apertura, ovvero nel legame che Crimson Peak ha con il cuore della narrazione ottocentesca, divisa tra pulsioni incontrollabili e rigore scientifico. Più che un racconto neogotico quello di Del Toro è allora un romanzo di formazione e amore melodrammatico fedelmente ottocentesco, almeno nei momenti in cui cessa di essere illustrazione divertita per cercare di farsi storia di carne e sangue.