Turner
Ipodermico e dolente, il Turner di Mike Leigh usa come pretesto la vicenda biografica del pittore, per riflettere sulla morte, sul progresso e sulla bestialità strutturale di ogni individuo.
Turner è un film che pare uno stato d’animo, pronto a insinuarsi sottopelle a velocità insospettate. Sono tanti i momenti in cui, come per effetto di una magia sconosciuta, l’opera di Mike Leigh esplode di luce, inebriando lo schermo di lacrime e colori. Come in una triste e densissima scatola delle meraviglie, sgorgano sogni dorati, dove sono riflessi gli affetti di chi è attratto dall’oscurità.
La tela del pittore diviene lo schermo del regista, che prende tempo, sfugge tra pensieri e ricordi di vite mai vissute, disegna figure sullo schermo mentre intelaia emozioni di luce: navi-fantasma, tramonti che esplodono d’oro, sfere di fuoco che affondano in mare.
Il cinema nudo e libero di Mike Leigh proietta se stesso al momento della creazione, dove il turbinio creativo dell’artista infanga la perfezione del quadro: una macchia rossa contro il buonsenso delle convenzioni, uno stendardo che si oppone a qualsiasi pigro adagiamento, un colpo di frusta al capolavoro morto e finito una volta per tutte (ancora una volta la potenza politica, situazionista del gesto è in grado di annientare il reale).
Raccontare Turner per Mike Leigh significa tracciare un sentimento irrappresentabile, scavare oltre la patina banalmente agiografica del biopic, ribaltarla, scandagliare le superfici dell’immagine. Il suo film diviene così la storia di uno sguardo, la melodia di un occhio emancipato che, per salvarsi dall’iperrealismo fotografico, è costretto a vedere oltre. Indagando le pieghe di un reale che avrebbe donato la sua faccia al dagherrotipo, l’obiettivo di Turner è quello di dipingere un’affettività invisibile.
Mentre l’Inghilterra si volgeva proterva verso un destino di fumo, ferro e vapore, Turner era quel superocchio che squarciava il visibile, scopriva i segreti cromatici del mondo, immortalandoli attraverso un pennello che si trovava già un passo oltre la pupilla.
La sua esistenza appare nel film come quel pretesto che rimanda continuamente ai bagliori e ai colori densi della pittura turneriana. Bagliori roventi che la moda pittorica dell’epoca avrebbe voluto estirpare, per dare spazio a un’arte sempre più borghese e emulativa.
Mortificando qualsiasi intento celebrativo, Leigh associa il suo oggetto filmico a un umore, a un colore, a un istinto, realizzando un film che sembra un incendio. Inscena affetti e sensibilità celati sotto un carattere bestiale, sottolineando la natura ancipite e insolubile dell’occhio umano, che non vede mai ciò che vorrebbe vedere. Quello che emerge è il cuore gentile nascosto da un maiale che, tra un grugnito e l’altro, si scopre capace di dipingere e amare. La pittura di Turner risiede tutta in quel grugnito, in quella foga, in quell’ipotesi ferina di dominio sulla tela e sull’altro. Se è vero che un mondo intero può entrare all’interno di un quadro, Turner è costretto a subire sulla sua pelle le insidie della tempesta, l’impeto cieco della natura, i pericoli del cielo e della terra: nella sequenza più visionaria del film, il pittore si fa legare all’albero maestro di una nave nel bel mezzo della tempesta. Come a dire, dipingere significa lasciarsi toccare.
Per indagare l’uomo, Leigh respinge qualsiasi possibilità di sintesi, convinto com’è che le contraddizioni siano insanabili, che ogni individuo sia un cuore così dolcemente, insanamente volgare da fagocitare perfino se stesso. Eppure, in quella volgarità, Leigh intercetta il carisma, la dolcezza infinita, la luce di un dio. La grazia non si oppone qui alla natura, ma è un suo naturale, imprescindibile conseguimento. L’animale che noi siamo morde e guarda, grugnisce e dipinge, scopa e perfino ama. Basta vedere il furore scopico del pittore quando, morente, è attratto dal corpo di una donna annegata. “Devo dipingerla” continua a ripetere estatico come se fosse caduto vittima di un morbo febbrile. Non è d’altronde il rapporto con la morte, il rifugio nella luce, il rigetto/attrazione per l’oscurità, a alimentare ogni immagine del film? Se è vero che l’opera utilizza le vicende biografiche del pittore per parlare d’altro, ogni inquadratura di Turner è un crinale teso verso le tenebre, ogni tableau vivant è già pronto a spegnersi delicatamente nel tramonto.
Leigh non si limita a animare i quadri del pittore; il suo film odora di vita, certo, vita inzozzata, umiliata, derisa e offesa, ma pur sempre vita. Egli intercetta la pittura turneriana all’interno dei moti d’animo, dei turbinii interiori, dei barlumi luccicanti di un non-detto, di un-non visto, di un non-ancora-sentito. Comprende infatti che il proprium di tale pittura è la rappresentazione soffusa – ma insieme precisissima – di un sentimento indecifrabile: disorientare il proprio sguardo tra i labirinti di un colore. E’ allora la melanconia di una figura sfumata, la paura ancestrale di perdersi nell’oscurità, di poter infine smarrire il proprio mondo, ciò che rende Turner un film su Turner.
La sua pittura è, sempre e comunque, un continuare a morire a se stessi: il Turner di Leigh dipinge questa morte, ottenendo in cambio un corollario di densissime, soavi sfumature di colore puro. Colore che si fa corpo cinematografico, dove ogni sguardo ha la stessa vastità di un infelice paesaggio turneriano.
Se un biopic racconta sempre la tremenda e inesorabile contingenza perfino del genio, Leigh fa del personaggio il più moderno tra i pittori perché egli, in quel misto di alterigia, tenerezza e sopraffazione, ha ceduto alle seducenti lusinghe della morte. A partire da quella prostituta che sveste dolcemente impugnando una matita, chiedendole di restituirgli una posa mortifera su cui poter piangere. Le lacrime del pittore diventano uno strumento d’invocazione, il tacito richiamo al sublime nascosto di una posa, di una gesto, di un volto.
Ecco perché la damigella che lavora come domestica in casa sua, è in realtà l’unico vero sguardo, l’unico vero punto di vista del film.
Personaggio praticamente muto, reticente e umilissimo fin dalla sua prima apparizione: in lei si nascondono i segreti di un mondo inaccessibile e primordiale. Il sublime tanto agognato si cela tra le malattie della pelle, sotto le misere vesti di chi ha sempre guardato e ascoltato, senza ricevere mai nulla in cambio. Su di lei Turner sfoga libidini sessuali e foghe ferine. I ripetuti atti carnali che la donna subisce, finiscono per fare di ogni orgasmo una piccola, inesorabile morte. Non c’è crudeltà nell’atto meccanico di lui, solo automatismo, mentre scorgiamo perfino un barlume di tenerezza sul volto deforme della domestica. Leigh osserva la scena con pudore infinito, dando movimento a un carrello che arretra lentamente. Eppure la donna, trattata alla stregua di uno straccio vecchio, di un oggetto depositato in una casa/gabbia, riuscirà a emanciparsi solo per un atto gratuito d’amore e compassione. E’ questa figura il personaggio più complesso e toccante dell’intero film, la bellezza recondita che Turner ricerca per tutta la vita senza rendersi conto che era sempre stata accanto a lui.
Al di là di questo immenso personaggio mortifero, acquista un senso analogo anche il prototipo di dagherrotipo da cui Turner si fa fotografare ben due volte. E’ interessante notare il carattere ambivalente del suo atteggiamento: da una parte è ostile e spaventato da un mezzo che cambierà completamente la percezione del reale, fino a soverchiare la pittura; dall’altra ne è attratto, perché dinanzi a lui si dischiude il sogno dell’eternità, o almeno qualcosa di molto simile. Prima di qualsiasi teoria della fotografia come elaborazione del lutto, Turner porta la sua signora, personaggio buono e graziato fino al midollo, a sottoporsi a quello che pare un intervento fotografico. Lei è spaventata a morte da quella macchina mostruosa e aliena, lui osserva l’obiettivo che rimpiazzerà l’occhio umano, ben cosciente che sarà la sua immagine, e non più il corpo, a resistere al tempo.
Mentre la musica si fa mantra dell’anima e melodia di luce, il pittore, sul letto di morte, consegna un’ultima celebre frase all’eternità: “Il sole è Dio” dice, in un momento di rara, estatica bellezza, in cui sembra quasi che il suo corpo sia parlato da altro. Da quell’altro misterioso che si agitava irrequieto in tutti i suoi quadri.
Il Sole, burattinaio che irraggia il mondo, diventerà punto di vista del protagonista in una delle inquadrature post-mortem, assurgendo a demiurgica fonte di luce.
In tutto questo Timothy Spall ringhia, ride e grugnisce, reinventa mirabilmente Turner all’interno di uno spazio filmico che sembra un teatro della vita. E, come in uno specchio deforme, viene intrappolato in un formato cinematografico che tanto somiglia a una cornice. Le inquietudini, le gentili intuizioni, le luci, le gioie e i dolori, assorbono anche il medium cinematografico, cullato da quelle poche perle di bellezza che riservava il suo tempo. Una pianista suona Il lamento di Didone dell’amato Henry Purcell, mentre questo “canto d’amore perduto” diviene il suo stesso mondo.