Un Été Brûlant

A quasi un anno dalla sua (controversa) presentazione in concorso al Festival di Venezia Un Été Brûlant di Philippe Garrel rimane tra le visioni più intense della passata stagione cinematografica. Pur con tutti i suoi difetti, la nuova fatica dell’autore transalpino ti resta attaccata dentro per poi crescere alla distanza nel ricordo di un amore e di un viaggio che a ripensarci potrebbe davvero rappresentare il punto di approdo finale nel cinema quarantennale di Garrel. Siamo ancora in territori nouvelle vague, tra citazioni dall’indimenticabile disprezzo godardiano e le (consuete) traiettorie amorose di personaggi schiacciati in una dimensione (a)temporale nel quale non esistono sbocchi. Perché tutto è già passato, da quell’amore infinite volte (ri)vissuto e già perduto che continua a ritornare, ad occupare nuovamente il campo visivo per presentarsi così come nel penultimo (e anch’esso inedito) La frontiera dell’alba come apparizione fantasmatica; ad una stagione del cinema e della vita nella quale era ancora possibile proiettare il proprio sguardo in avanti, nel futuro.

In Un Été Brûlant la narrazione inizia e si conclude nella prima sequenza dove uno sconvolto Louis Garrel viaggia a tutta velocità nel cuore della notte fino a schiantarsi volontariamente contro un albero, non prima di aver rivolto il suo ultimo pensiero a una Monica Bellucci – Brigitte Bardot di conturbante sensualità. In questi quattro minuti è racchiuso l’intero film, il resto non è altro che un lungo flashback in cui si dispiegano gli eventi che hanno portato al tragico gesto, in un (falso) movimento che ci inchioda dinnanzi ad una visione che non ammette fughe in avanti. L’unico orizzonte possibile è quindi la morte, del protagonista, di suo nonno, degli ideali sessantottini, e forse anche del cinema di Garrel. Un cinema che da ormai molto tempo ha come unico obiettivo quello di preservare la memoria piuttosto che riscrivere il presente. Perché il presente non esiste. Ed è forse per questo che in Un Été Brûlant si cita con ancora maggiore evidenza rispetto alle ultime prove quel J’entends plus la guitare che sullo sfondo di un’Italia estiva e misteriosa metteva in scena la perdita di Nico. Anche qui due coppie si muovono nella bruciante calura di un’estate italiana, e anche qui una delle due finirà per lasciarsi tragicamente. Ad essere cambiato rispetto ad allora è il panorama: al paesaggio costiero del golfo di Napoli Garrel sostituisce una Roma “monumentale” fatta di statue e vecchie rovine, che, come i personaggi garrelliani non è in grado di andare oltre il ricordo di un’epoca gloriosa.

Ma anche lo sguardo di Garrel è cambiato: laddove in J’entends plus la guitare il protagonista era in grado di superare la rottura con la propria donna amata, abbracciando la nascita di un nuovo amore, qui Frédérick sceglie di lasciarsi morire senza opporre alcuna resistenza. Il doloroso distacco dall’adolescenza che prendeva forma in J’entends plus la guitare, si tramuta, in una sorta di canto funebre in onore del cinema e soprattutto del padre Maurice, scomparso durante le riprese. A lui Philippe rivolge tre omaggi carichi d’affetto: nella rappresentazione di un film nel film ambientato durante la seconda guerra mondiale che riprende l’esperienza resistenziale del padre; nelle dolci parole di Louis, che ne ricorda la scomparsa tenendo in mano una sua foto e infine nella sua stessa apparizione fantasmatica in uno dei momenti più commuoventi di tutto il cinema garrelliano. A lui inevitabilmente corre il pensiero nei titoli di coda in una chiusura del cerchio cinematografico ed esistenziale che preannuncia una svolta: il passato può (forse) diventare ora una terra straniera.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 18/02/2015

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