Wilde Salome
Il film di Al Pacino diventa schieramento di teatro e cinema attorno alla vita che viene riscritta da un gesto tanto programmatico quanto fragile, effimero, in un’illusione necessaria.
Wilde Salome: ritratto e autoritratto, diario e performance, messa in scena di un’autobiografia, di una composizione d’attore/autore in un moto ritornante per interposta esistenza. Opera a sé e da un altro mondo, lo schieramento di teatro e cinema attorno alla vita che viene riscritta da un gesto tanto programmatico quanto fragile, effimero, in un’illusione necessaria; la verità dentro un apparato di finzione diventato vertigine, meta-gioco (“visivo”, infine, sovrapposto a quello realmente, “privatamente” teorico). Né «un film narrativo tradizionale, né un documentario. È sperimentale, è l’emancipazione di un’opera che continua a vivere». Al Pacino la mette in questi termini nelle note di regia. E la visione scivola in esperienza sensoriale, in un corpo a corpo che è abbraccio violento, tra l’immagine e lo spazio che la possiede, campo tensivo, luogo della narrazione abitato dai corpi e tiranneggiato dalla parola.
Al Pacino, così come aveva fatto con Looking for Richard, avvicina autore e testi amati con una famelicità, con una foga che conquista. Lì era William Shakespeare, qui è Oscar Wilde. Lì, era il 1996 e quell’intreccio di piani espansi tra messinscena e retroscena, radiografia del testo e di se stesso, in quanto regista, attore e personaggio, documento e rappresentazione, che giungeva come una inaspettata apertura di sipario su una via di racconto inedita. Qui, in questa “wild” Wilde Salome il recupero del medesimo meccanismo a molti anni di distanza appare meno potente e più discontinuo ma non meno affascinante.
Un amore dichiarato, si diceva, quello per lo scrittore, poeta e drammaturgo dublinese che congeda la sua scandalosa Salomè, attinta dai testi evangelici di Marco e Matteo, mentre si dedica con certosina e letteraria cura a far precipitare la sua vita privata nello “scandalo” che lo porterà in prigione. Un testo, scritto nel 1891 per la divina Sarah Bernhardt e pubblicato nel 1893, sette anni prima dalla prematura morte del suo autore, ipercensurato nell’Inghilterra di fine Ottocento e qui rappresentato solo nel 1931.
Al Pacino si mette sulle tracce di Wilde come in un pellegrinaggio nel mondo, mentre ha a disposizione solo un pugno di giorni per girare parallelamente il suo film, stratificato, dislocato, programmaticamente sconfinato. L’erranza del regista Pacino e, contemporaneamente, la sua stasi monumentale, su un palco grigio e spoglio.
Diretto da Estelle Parsons, Pacino è Erode Antipa, il Tretrarca di Giudea che nelle sue prigioni tiene rinchiuso pur temendolo Iokanaan, Giovanni il Battista. La giovane, pelle di luna Salomè, figlia della sua sposa già cognata, Erodiade, lo turba come lei è turbata dal profeta imprigionato. Pacino in quel momento è brano, parte dei suoi personaggi che lo hanno consacrato, è il gestore inadeguato di un potere sterminato, è il senno che sbatte alle pareti di una reggia. Grandioso leone assiso sul trono, divora il testo di Wilde e ne fa impeccabile modulazione di ogni respiro, urlo, suadenza e ordine. E gli tien testa la lasciva e persa Salomè di Jessica Chastain, sia che danzi con i veli rosso sangue sia che amoreggi con la testa del Battista. Un testo preciso come una lama, spietato come il suono delle spade che, alla fine, rendono giustizia del martirio di uomo santo, colpevole di aver condannato dalla sua cisterna-prigione quel peccato alla luce della luna che illumina, magnifica e testimonia.
“Salomè, danza per me” è l’invito che precipita tutti nell’abisso senza ritorno, dai Vangeli a Wilde, alla sua biografia, capolavoro di dramma e letteratura, intercapedine tra arte e vita, carpita da Pacino e applicata qui come metodo narrativo e ipnotico mistero.