Una promessa
Una promessa di Patrice Leconte è un melodramma intriso di retorica da soap opera televisiva.
Tratto dal romanzo di Stefan Zweig, Una promessa è la storia di un amore platonico ambientato nella Germania degli anni ’10 del secolo scorso. Friedrich (Richard Madden) è un giovane ingegnere di umili origini che ha da poco cominciato a lavorare nell’acciaieria di Herr Hoffmeister (Alan Rickman), che lo prende subito in simpatia. Improvvisamente costretto da una malattia a non uscire di casa, il proprietario della fabbrica chiede a Friedrich prima di fare da tramite tra lui e l’azienda, poi di diventare suo assistente personale, e infine di trasferirsi a vivere a casa sua. Qui conosce la moglie del padrone, la giovane e bellissima Lotte (Rebecca Hall), con cui comincia a intrattenere una relazione di sguardi e doppi sensi. Più volte sollecitata alla concretezza da Friedrich, Lotte fa la sostenuta, finché non ammette di amarlo dal giorno in cui si sono incontrati. Ma ormai è tardi perché lui, non per caso, viene spedito dal capo in Messico per due anni. Di fronte all’ostacolo, i due innamorati si fanno, appunto, una promessa: aspettarsi per ventiquattro mesi in assenza che il marito malato perisca, per poi finalmente amarsi. Ma scoppia la guerra e ai due anni se ne aggiungono altri quattro, in cui tutte le comunicazioni oltre oceano e la stessa possibiltà per Friedrich di tornare in Germania sono rimandate dal conflitto bellico, durante il quale Hoffmeister finalmente muore.
In tutto il film i due potenziali amanti non si baciano e non si toccano mai, il massimo che lui può fare è odorare i tasti del pianoforte che lei suona con grazia e toccarle una caviglia. Siamo di fronte a un tipico amore platonico, impossibile e mai consumato. Anche quando lui torna dal Messico dopo sei anni, ufficialmente per “affari di lavoro”, e torna a trovarla a casa, si guardano intensamente senza abbozzare neanche un contatto. Hanno aspettato talmente tanto che bruciare un bacio dopo anni lontani sull’uscio della porta sarebbe troppo banale. Perciò, degustano un thé con i pasticini, chiacchierano con onestà sulle proprie esperienze (“a onor del vero, devo confessarti che sono stato con altre donne…” dice lui timidamente, cui lei risponde “non ti biasimo…”), poi prendono un treno dove si siedono nello scompartimento l’uno di fronte all’altra, ancora senza mai toccarsi. Arrivano così in una ignota cittadina, dove affittano una squallida stanza d’abergo per consumare finalmente il loro amore (perché non a casa di Lotte?), senza ancora essersi neanche baciati o abbracciati. Ma a sorpresa decidono di andare a fare “una passeggiata”, fino ad arrivare finalmente nel luogo romantico che merita, infine, il primo bacio.
L’autore brillante de L’uomo del treno (2002) e Confidenze troppo intime (2003) sembra lontano in questo melodramma senza alcuno sbocco né apertura narrativa. Il film parte bene, ma si perde subito in una retorica dello sguardo da soap opera televisiva. La prova degli attori non aiuta, che oltre a rimanere fisicamente uguali e bellissimi, dopo sei anni continuano a recitare allo stesso modo, ovvero discutibile. Dispiace soprattutto per una sequela di scene involontariamente comiche, come i rintocchi di campana che decretano l’inizio e la fine della guerra o il puzzle, incompleto e mai finito come la loro relazione – che in realtà non è mai iniziata –, terminato da Friedrich dopo sei anni con il pezzo mancante, “che è sempre stato qui”.
L’altra nota dolente è la totale marginalità della Storia sulla storia. A ridosso del suo scoppio, la Prima guerra mondiale, che sembra non toccare in alcun modo l’agiatezza di casa Hoffmeister se non bloccando le comunicazioni tra Lotte e Friedrich, è relegata a un mero strumento narrativo, per dilatare ulteriormente la distanza tra i due. Non fungendo nemmeno da contesto, la storia rimane quindi asservita al romanticismo retorico da racconto Harmony. Invece di approfondire il contesto industriale della Germania pre-bellica, con tutte le dinamiche e i conflitti di classe tra la borghesia industriale e i ceti popolari che ne sarebbero convenuti, Leconte decide di rimanere quasi sempre dentro la reggia-prigione di Hoffmeister. Non manca, invece, il riferimento finale al nazismo che sta prendendo forma, con una parata di veterani di guerra, dove spuntano le prime bandiere con le svastiche, attraverso cui i due protagonisti passano attraverso. Leconte cambia il finale del romanzo perché assicura, altrimenti “ci saremmo buttati tutti sotto un treno all’uscita della sala”. Lo ringraziamo sentitamente, quindi, per il liberatorio happy end, mediante cui continueremo a vivere felici e contenti, fiduciosi che l’amore platonico dei due possa, prima di tutto, essere consumato, e sopravvivere poi ai nefasti presagi delle svastiche.