Under the Skin
Il film di Jonathan Glazer rischia di apparire ostico ai più, ma è un'esperienza sensoriale da non perdere
Come ha dimostrato l’ambivalente accoglienza allo scorso festival di Venezia, la natura estetica di Under the Skin rischia di venir fraintesa fin dal suo incipit visionario. Malgrado il film di Johathan Glazer nasca come l’adattamento dell’omonimo romanzo di Michel Faber, la storia della metamorfosi di Laura un’aliena in una conturbante sconosciuta alla guida di un furgone che abborda gli uomini soli per catturarli e farne cibo per la propria razza, è solo un espediente per raccontare l’esperienza sensoriale del vivere in un corpo. Non una narrazione letteraria dunque, ma prettamente visiva: l’esasperazione sonora e percettiva, che potrà spazientire gli spettatori in cerca di un racconto convenzionale, cela un’interesse insistente per la graduale consapevolezza dell’essere racchiusi nella carne diametralmente opposto dal dramma vissuto nel libro dalla protagonista. Laddove questa si considerava una creatura mutilata, costretta in una gabbia di pelle esteticamente incomprensibile, colma di rimpianto per l’originario fisico alieno, qui Scarlet Johansson indossa con sguardo assente un corpo sconosciuto che solo lentamente inizia ad assumere nuovo significato ai suoi occhi; e particolare adatta qui è in effetti la scelta di un’attrice il cui aspetto fisico si è così potentemente consolidato nell’immaginario culturale, quel corpo quasi impersonale, freddo, nella sua idealizzazione mediatica che in medesima misura nel racconto serve solo a catturare l’attenzione altrui.
Ma il corpo vive anche una seconda vita propria distaccata dalle intenzioni di chi lo abita, la quotidianità di un organismo autonomo ed è nell’interrogarsi sulle possibilità di quel vestito di carne che porta addosso che la protagonista di Under the Skin inizia a cercare un modo per esperire la propria pelle fittizia sollecitandola: è una ricerca che prelude al dramma di vivere dentro, non attraverso un corpo. Privata del proprio aspetto originario e dotata di un travestimento carnale che solo esteriormente richiama l’apparenza umana, Laura non può che divenire un’emarginata, abitante apolide di una splendida e sinuosa epidermide inerte che non può essere nutrita, penetrata, soddisfatta, pura visione priva di ogni altra funzione.
La consapevolezza corporea, o di quello che il corpo umano potrebbe essere, genera comprensione ed empatia verso coloro che prima parevano solo animali, e in un secondo ribaltamento narrativo dal libro al film le prede della bella sconosciuta, descritte da Michel Faber nella loro progressiva disumanizzazione tipica degli allevamenti intensivi, divengono persone reali, uno distinto dall’altra. Qualcuno può perfino rivelarsi similarmente straniero e deforme nella propria pelle.. Emergono i canoni estetici, la simpatia o la crudeltà dei singoli esseri; e come sempre accade, l’empatia rende vulnerabili, al punto da rischiare di trasformare i predatori in vittime.
L’esercizio stilistico di Johathan Glazer si declina su un piano ipersensoriale per meglio accentuare il numero di informazioni tradotte dai sensi umani/alieni: una dimensione aumentata di suoni e luci talvolta ardui da definire, alieni nella misura in cui possono apparire a occhi estranei, un miscuglio caotico e talvolta indecifrabile che costringe Under the Skin in un registro cinematografico sperimentale, quasi respingente; ma che in cambio regala un’esperienza visiva che al di fuori da ogni interrogativo per le dinamiche della storia appaga e insieme stressa i sensi e fornisce la possibilità di riconsiderare questo corpo quasi scontato nell’abitudine quotidiana. Una carne nuova, inedita, del tutto impenetrabile che vive per se stessa. Metri e metri di epidermide in cui avvolgersi, per diventare quell’Altro che non sapevamo di essere.