Tutte le generalizzazioni sono false. Inclusa questa.
Donald Henry Rumsfeld
Errol Morris è uno dei maggiori documentaristi statunitensi, un sublime indagatore delle zone d’ombra e delle b-sides del potere, quelle non troppo esposte ai riflettori e dunque restie a venire alla luce, abituate al buio dell’oblio collettivo e della negazione al pubblico dominio. Ha girato film importantissimi come Gates of Heaven, progetto stimolato da Herzog e adorato dal compianto Roger Ebert, penetrato i segreti fotografici e gli orrori della prigione di Abu Ghraib nel notevole Standing Operating Procedure – La verità dell’orrore e conversato con Robert Strange McNamara, Segretario della Difesa americana sotto Kennedy e Lyndon B. Johnson. Una figura istituzionale americana che evidentemente affascina Morris nel profondo, tanto da ritornare nel suo nuovo The Unknown known, il noto ignoto, espressione terminale di un calembour divenuto celebre e pronunciato da quel Donald Rumsfeld che del film è protagonista e mattatore assoluto. Concedendosi a un luogo dialogo-intervista con Morris che costituisce il fulcro primario del documentario, Rumsfeld ripercorre le tappe salienti della sua carriera istituzionale come “statista” (virgolette d’obbligo): due volte segretario, membro del Congresso e consigliere di ben quattro diversi presidenti. Moraleggia per massime apodittiche e ammiccanti decisamente nello stile mediatico del personaggio, abbonda coi suoi proverbiali sorrisi inclinati e un po’ oscuri che inquietano e lasciano interdetti, si compiace, perfino, come nelle sue proverbiali e colorite conferenze stampa in cui era solito rispondere alle provocazioni dei giornalisti in maniera brillante e indisponente.
Da consumato uomo delle istituzioni talvolta tacciato (a ragione) di machiavellismo, dimostra ancora una volta di sapere benissimo come si manipola al meglio l’immagine del potere nel momento in cui entra in gioco la sua rappresentazione per vie comunicative: egli si mostra allora equilibrato ma imperfetto, un uomo come tanti ma contraddistinto da un’invidiabile e di sicuro non comune senso della misura. Non come Morris, che a suo dire brilla di una luce malata, perfettamente scorgibile nello sguardo, quando pronuncia la parola “ossessione”. E’ un Rumsfeld in gran forma nonostante gli anni che avanzano e la centralità venuta meno, irreprensibile nell’autodefinirsi, con quel ghigno che si fa autopsia vivente dell’ipocrisia politica sbandierata impudentemente. Conflitto, ricatto, violenza: i tre pilastri portanti che Rumsfeld candidamente ammette, con una serenità che lascia basiti e sconvolti mentre l’enfasi fiabesca delle musiche di Danny Elfman, che puntellano e contrappuntano l’intero film, fanno il loro sporco lavoro esasperando il senso straniato di un incubo paurosamente simile a una favola nera, di quelle che magari sei disposto a sentir raccontare ma non vorresti mai e poi mai che prendessero vita per davvero.
Morris prova ad evidenziarne le contraddizioni grossolane e il macroscopico relativismo morale, con definizioni di parole in formato da vocabolario che appaiono in sovrimpressione sulle immagini e sugli sguardi accigliati di Rumsfeld. Un montaggio che segue quest’andamento, sconfessando soprattutto attraverso un controcanto di immagini a effetto com’è nello stile di Morris. A lasciare ben più perplessi in The Unknown Known è però il margine non troppo ristretto di indulgenza concessa all’intervistato: una conseguenza forse involontaria ma che il semplice fatto di aver dato direttamente voce alle rimostranze di un personaggio di tale levatura (in termini di efficacia dell’impatto mediatico, non di moralità) finisce col causare inevitabilmente. Il regista serve all’intervistato qualche assist di troppo nella misura in cui gli offre una platea per diffondere proclami di dubbio gusto con piacioneria ridanciana, affievolendo così la portata criminale ed esecrabile di certe posture e atteggiamenti. Un po’ come quando, per citare contesti a noi più vicini e congeniali, si lascia campo libero ai barzellettieri al potere concedendo loro di ridicolizzare o quantomeno di sminuire temi che altrove risolverebbero spinosi e invalicabili, invitandoli anche in trasmissioni tv e tentando così di batterli in ciò in cui sono più forti o pressoché imbattili. Rumsfeld, a prescindere da ogni giudizio in merito, è infatti un comunicatore di livello indiscutibile, destinato quasi per forza di cose a uscire da un conflitto di questo tipo se non rafforzato comunque indenne, e se non del tutto inviolato comunque con una serio margine di danni contenuti.
Morris in questo caso, nell’inseguire a detta di Rumsfeld “il coniglio sbagliato”, va anche oltre: lo umanizza, lo fa piangere sullo schermo, probabilmente confidando eccessivamente nell’acume e nella maturità di qualsiasi tipo di spettatore, come se qualsiasi destinatario ideale del suo film avesse la estrazione socio-culturale e lo stesso grado di consapevolezza. Ovviamente non è così, e donare simili pulpiti a certe voci può essere a dir poco rischioso. Si tratta insomma di un Morris non del tutto smaliziato e affilato come in passato, una specie di pugile stanco che lascia scoperte troppe aperture nella posizione del corpo per sperare che l’avversario non assesti qualche bel colpo mirato al momento giusto. Certo, l’autore di Fast, Cheap and Out of Control non sta certo a guardare (fantastico quando prorompe in un: “Ma insomma, Rumsfeld, le cose succedono e basta?”), ma di siparietto in siparietto concesso al suo interlocutore – avversario rischia di somigliare troppo a quella “tigre di carta” che era l’America per Saddam. Un intellettuale che purtroppo per noi e per lui finisce col fare da cane di compagnia più che da guardia alle stanze segrete del potere occulto. Talvolta non basta neanche il potere immaginifico di foto fortissime in grado di turbare, perché le parole non sempre bruciano al sole come mostrato in una sequenza animata di The Unknown Known. In alcuni casi, quando hai davanti una faccia da schiaffi di proporzioni così cosmiche, può risultare allarmante anche il tentativo di scagionarsi simpaticamente portato a termine dalla parte in causa, deleterio come poco altro e dunque auspicalmente evitabile. Ed è questa la ragione principale per cui il film di Morris è meno coraggioso di quel che potrebbe sembrare, più convenzionale, ben confezionato e mooriano, perfino paradossalmente accomodante. In esso la libertà simbolicamente evocata da quel mare non si raggiunge mai e la speranza è incancrenita dal germe della falsità declamatoria che invade lo schermo e al quale il taglio pop del doc non riesce a opporre tutta la resistenza dovuta.