La quinta giornata del Festival di Venezia si è aperta con una notizia abbastanza sconvolgente: il nuovo, atteso film di Terrence Malick, To the Wonder è stato accolto con pochi applausi e molti fischi. Le ragioni di una tale reazione vanno individuate nella radicalità dell’opera, la quale spinge fino alle estreme conseguenze la visione cinematografica del suo autore arrivando a negare del tutto una narrazione e imponendo uno sguardo sempre più impressionista sulla cose.
Ciò che colpisce di To the Wonder è la mancanza di calore e di empatia nei confronti degli uomini e delle donne che racconta. L’occhio di Malick è perennemente in movimento come mosso da una bulimia visiva che deve riprendere tutto. I brandelli di realtà che il film accoglie al proprio interno faticano ad unirsi in una visione complessiva, in una sintesi organica, rimanendo di fatto sconnessi l’uno dall’altro. E dire che era iniziato in modo sorprendente: le prime immagini ambientate al Mont Saint Michel (la meraviglia del titolo) e riprese con un telefonino promettevano uno sguardo nuovo, più libero e leggero, ma era solo l’incipit. Il resto del film segue un canovaccio molto diverso con le voci over dei protagonisti costantemente presenti e un utilizzo arbitrario delle immagini, come se la riflessione fosse più importante della storia e dell’emozione. In questo senso il film può essere visto come una sorta di seguito di The Tree of Life, o meglio, come il suo doppio terreno e funereo. Non sembra esserci alcuna speranza: tutti i personaggi sono dilaniati da dubbi, sulla forza e l’importanza dell’amore, sulla fragilità delle relazioni, sul senso dell’esistenza, sull’impossibilità della fede.
Al contrario dell’opera precedente Malick rimane saldamente ancorato alla realtà. Il cielo ora è lontano così come lo sono gli uomini da Dio e il tempo è costantemente negato dal suo fluire. I personaggi parlano sempre al passato come se non esistesse un presente. L’esperienza della durata è quindi capovolta: rispetto a The Tree of Life che cercava di tenere insieme momenti diversi della storia dell’uomo per comporre un unico racconto sul destino dell’umanità, dalla nascita della terra fino al post vita, To the Wonder impone la frammentazione, il caos di singole particelle che non riescono a trovare un unione. Ogni singola scena viene squarciata, letteralmente fatta a pezzi senza che sia possibile poter pensare una sintesi, trovare una vera connessione. Le storie d’amore tra Neil e Marina e poi tra Neil e Jane vengono ricostruite attraverso momenti fulminei, brevi scarti visivi che insistono sui movimenti dei corpi e sullo spazio nel quale essi agiscono. Il tutto ovviamente a scapito dell’emozione: la continua ricollocazione temporale dei frammenti produce una distanza sempre più ampia che impedisce agli spettatori di poter condividere le esperienze dei personaggi proprio perché mai davvero vissute. E’ come se dopo The Tree of Life Malick avesse voluto spingersi quasi oltre il cinema superando anche la forma-film, in una tensione distruttiva che però non trova mai vero appagamento. L’occhio di Malick per la prima volta dà l’impressione di girare parzialmente a vuoto come se non ci fosse più niente da filmare, o meglio, come se egli non fosse più in grado di poter stabilire quello che davvero è importante per il film. Detto questo, non si può comunque negare l’enorme fascino che è capace di emanare: la sua natura di opera “minore”, palesemente imperfetta e piena di sbavature gli dona un alone di mistero particolare che lo fa emergere rispetto agli altri titoli della mostra. Non sarà il capolavoro che tutti si aspettavano ma To the Wonder è comunque un’opera importante che merita di essere analizzata con attenzione. Siamo sicuri che tra qualche anno, quando ci si potrà ragionare a mente fredda e con maggiore distacco, verrà certamente rivalutata. Come si suol dire: ai posteri l’ardua sentenza.
Dopo le stupefacenti (e sconcertanti) visioni malickiane il concorso ha visto passare un altro peso massimo della regia: il grande Takeshi Kitano. Il regista giapponese tornato per l’ottava volta al lido con il seguito di Outrage, Outrage Beyond, prosegue nella devastazione dello yakuza movie ma con un po’ di cuore in più: al contrario di quanto fatto per il primo capitolo, qui Kitano costruisce una narrazione più solida e insieme più ellittica che quasi rinuncia a mostrare le uccisioni, come se in qualche modo non avessero più importanza. A primeggiare è ancora una volta la parola ma in un senso diverso: se nel film precedente le lunghe chiacchierate attorno ai tavoli servivano al regista per rinviare le esplosioni di violenza e insieme a mostrare la pianificazione degli agguati e degli “oltraggi” che successivamente venivano messi in atto, qui vengono utilizzate dal regista con una funzione più narrativa, ovvero come veicolo degli intrighi costruiti freddamente dal detective Kataoka, poliziotto spietato che cerca di mettere i clan l’uno contro l’altro affinché possano distruggersi a vicenda. Così facendo Kitano allarga la visione disincantata del genere attribuendo un ruolo negativo anche alla polizia, potere che non solo gestisce il malaffare insieme con la mafia ma che al contrario dei clan non ha neanche lo straccio di una morale.
In conclusione di giornata c’è stato modo di vedere anche l’interessante Leones (Orizzonti) della regista argentina Jazmin Lopez, piccola opera sperimentale che dialoga con il cinema di Van Sant, Bela Tarr e Lisandro Alonso attraverso il racconto di un misterioso viaggio tra i boschi di un gruppo di amici. Niente di particolarmente originale intendiamoci, ma l’uso straordinario della macchina da presa unita con la bellezza dei luoghi mostrati impongono l’opera come una delle visioni più affascinanti e sorprendenti viste fino ad ora al festival di Venezia.