Spring breakers forever, spring breakers forever, spring breakers forever… l’ossessione per la ripetizione che da sempre abita il cinema di Harmony Korine – pensiamo ai vecchi di Trash Humpers, che vagano per le strade o tra le case di un sobborgo metropolitano distruggendo tutto quello che gli capita a tiro, o alle “maschere” di Mister Lonely, alienate nella reiterazione di un gesto che non gli appartiene – trova nella sua ultima opera (presentata in concorso) un’ulteriore evoluzione nella velocità e nella standardizzazione del videoclip. Korine sembra spingere ancora oltre il suo cinema, seguendo in parallelo alcune riflessioni inaugurate a partire da Mister Lonely sull’identità nell’epoca delle immagini, in qualche modo rinunciando a inventarne di nuove ma puntando piuttosto sulla mimetizzazione, sull’assimilazione di una superficie che in alcuni casi viene trasferita direttamente nel fotogramma. Così, se in Mister Lonely il regista annullava i propri personaggi dietro i costumi che indossavano e che gli impedivano di poter vivere di vita propria, di poter imporsi nella loro singolarità (come in Trash Humpers i volti dei suoi attori, camuffati con maschere tutte uguali), in Spring Breakers si arriva a negare l’idea stessa di immagine indipendente attraverso l’esatta riproposizione dell’estetica dei videoclip di Mtv (zoom, camera a mano, montaggio frenetico, musica a palla). Con un intento fagocitante e al contempo riflessivo, Korine si ciba degli “scarti” della televisione assorbendoli all’interno di un regime discorsivo teso a (di)mostrare la vacuità di quelle immagini e di quei modelli attraverso la loro “semplice” messa in scena. All’interno di questo mondo plastificato Korine proietta quattro teenager che scelgono di passare le loro vacanze primaverili in Florida tra sesso, droghe, alcool e musica commerciale. Come una sorta di romanzo di (de)formazione il film racconta il percorso di crescita di queste ragazze, le quali dopo un inizio esaltante si trovano a vivere un’esperienza che col passare dei giorni si tramuta in un incubo. Le intenzioni del regista sono fin troppo esplicite – utilizzare il prototipo di pubblico di Mtv per evidenziare l’idiozia e l’assurdità dei modelli che quella televisione trasmette – ma il film non sempre riesce ad essere convincente. La parte che paradossalmente risulta alla fine più riuscita è proprio quella che riguarda la rappresentazione di immagini e caratteri presi di peso dall’immaginario televisivo, come se il regista non fosse stato in grado di far dialogare nel modo giusto la dimensione narrativa con quella visiva.
In una giornata alquanto schizofrenica il concorso ha visto passare un’opera di segno completamente diverso rispetto a quella di Korine, ovvero Linhas de Wellington della regista cilena Valeria Sarmiento. Il film, ambientato tra il 1810 e il 1811, racconta della guerra anglo-franco-portoghese concentrandosi nella messa in scena del lungo esodo che portoghesi ed inglesi dovettero compiere per scappare dalle truppe francesi. Con un incedere lento e un po’ macchinoso l’opera si porta avanti per ben 150 minuti alternando scene di battaglia (presenti quasi tutte all’inizio) e le storie dei tanti personaggi che affollano la diegesi, senza però mai riuscire a dire qualcosa di nuovo. L’impressione che si ha alla fine della visione è di aver assistito ad un film debole tanto nella scrittura che nella regia (gli spunti più interessanti legati a questo aspetto si trovano, proprio come le battaglie, nella parte iniziale) che probabilmente non meritava la sua collocazione nella competizione internazionale.
Chi invece ha meritato ampiamente di essere selezionato è stato l’esordiente Leonardo Di Costanzo, il quale con L’intervallo colpisce lo spettatore con la toccante storia di un giovane venditore ambulante di granite, che si ritrova contro la sua volontà a dover indossare i panni del carceriere, e della sua vittima, una ragazzina di quindici anni che per un imprecisato motivo è condotta all’interno di un fatiscente palazzo abbandonato della periferia napoletana. In questo luogo sospeso quasi fuori dal tempo i due trascorrono un’intera giornata insieme, tra scambi di battute velenose, piccoli screzi e gesti d’affetto nell’attesa di poter tornare ognuno alla propria vita quotidiana. Tra gli aspetti più interessanti dell’opera si segnala l’uso intelligente degli spazi che il regista sembra quasi inventare dal niente: dentro il perimetro dello stabile prendono forma un fiumiciattolo con tanto di barchetta, un bosco, una stanza di manicomio e molto altro ancora. Con la sola forza dell’immaginazione i due protagonisti inventano mondi, attraversano terre lontane, compiono viaggi nel tempo scoprendo ogni volta qualcosa in più dell’altro. Perché il film è prima di tutto un bellissimo e complesso rapporto a due nel quale le psicologie così come i ruoli sono costantemente in divenire. Come una lunga partita a carte i due si studiano, si ingannano, bleffano per poi alla fine scoprirsi davanti alla veduta di una desolante periferia. Senza ombra di dubbio la sorpresa fino ad ora più lieta del Festival.