Presentato in concorso a Cannes nel 2012, Vous n’avez encore rien vu è l’ennesimo esercizio di grazia e raffinatezza dell’indistruttibile Alain Resnais. Novant’anni di riformismo e poesia vissuti tutti sulla propria pelle e la voglia immutata di giocare con le forme e le superfici del suo cinema, accarezzandole, togliendo loro la polvere per riscoprirne e ricordarcene la lucentezza. Il maestro della Nouvelle Vague riunisce un foltissimo gruppo di attori a lui cari (la compagna Azema, Arditi, Wilson, Amalric, Piccoli, Gyrardot…) e intarsia un’ode congiunta a cinema e teatro, a una settima arte tutta parlata da mettere alla prova per sondarne la resistenza, oltre la morte, al di là della fine. Con somma leggerezza, il regista si specchia smaliziatamente nel suo film, quasi riversandogli addosso gli spettri di una sua stessa eventuale scomparsa: la dipartita del drammaturgo Antoine d’Anthac (Denis Podalydès) è infatti occasione per i suoi interpreti più fidati, vicini a lui da svariati anni, di riunirsi davanti a uno schermo che proietta le immagini di una nuova versione di quell’Euridice che fu un loro cavallo di battaglia. Un rendez-vous al quadrato in cui Resnais sembra chiedersi in prima persona che ne sarà della sua arte quando egli stesso avrà smesso di veicolarla con passione mai doma, e la risposta che l’autore di Hiroshima mon amour sembra darsi sta in un confortevole universo di marionette e burattini. Un mondo in cui l’amarezza della vita continua a trovare sollievo nell’arte, tanto da volersi identificare con essa e cessare di essere distinguibile e riconoscibile (attori e personaggi sono qui un uno indistinto). Come se, nella vecchiaia, nascondersi con levità dietro i fasti di ricordi memorabili sia l’unico modo per non lasciarsi sgretolare da una nostalgia potenzialmente schiacciante.
Più del dialogo generazionale tra i nuovi e i vecchi attori della stessa opera ritrovatisi insieme, entrambi presenti su un set poroso che si apre su ambienti e squarci scenografici irreali, a Resnais interessa la febbrile scorrevolezza di questa seduta spiritica tra accoliti e pochi intimi, ancorata a un passato che è e continua ad essere il solo presente possibile. Un trascorso tutt’altro che remoto pronto a essere nuovamente srotolato, nel quale lasciare che il grande schermo e il palcoscenico si compenetrino, si sovrappongano, si rincorrano. Occupando, incredibilmente, il medesimo spazio, sospinti da un’enfasi mai invasiva e mai gravosa. Gli amori folli e passionali riaffiorano, i padri e i figli rifanno i conti (memorabile la scena con Arditi e Piccoli, Orfeo e suo genitore) e i linguaggi conversano tra loro mentre il cinema di Resnais torna sulla ribalta con modi e soluzioni tutt’altro che senili: Vous n’avez encore rien vu è infatti paradossalmente un film sperimentale, che coglie intersezioni pindariche tra mezzi espressivi che si sarebbe portati a visualizzare come punti fermi separati e ne rilancia le potenzialità di cui qualche volta, pigramente, siamo un po’ tutti dimentichi. La sua sessione di autoanalisi, emotiva e stilistica, diventa alla fine un meraviglioso scherzo a carte scoperte, che contraddice se stesso nella negazione burlesca dell’escamotage di partenza, che affoga addirittura nello split screen perché tanta è la brama di vedere tutto, di essere ovunque, di continuare a essere, anche se fuori tempo massimo, un cineasta di confine, anche nella ri-contemplazione infinita del proprio vissuto umano e artistico.
Le opere firmate da Jean Anouilh forniscono le battute, tratte non solo da Euridice ma anche da Caro Antonio, per quello che più che essere un lavoro terminale è la summa di chi, giunto al culmine della consapevolezza, può permettersi di voler inseguire l’imbarazzo ghignante del coup de théâtre e della trovata a effetto. Il tutto in un’incantevole struttura cerebrale, slegata dal fine intimo di un appagamento narrativo e immolata sull’altare dell’eleganza. Non è difficile, a pensarci bene, immaginare Resnais stesso seminascosto, in maniera beffardamente sontuosa, tra i ruderi e i misteri del finale. Una conclusione in cui il titolo, Vous n’avez encore rien vu, non può non assumere un chiaro significato ironico: nell’impossibilità reale di azzerare il suo cinema e farlo ripartire ex novo (se potesse, il giovane vecchio Resnais lo farebbe davvero…), il regista si accontenta, si far per dire, di smascherare l’eterna giovinezza cui siamo costretti, condannati a sospendere l’incredulità in virtù di un benedetto, salvifico stupore duro a morire.