Welcome to New York
Welcome to New York è un'opera apocalittica sulla fine dell'uomo e allo stesso tempo un racconto sul crollo dell'immagine divistica e cinematografica.
Il sesso è sempre politico, dice Pasolini commentando indirettamente le immagini di Salò, nell’altro grande anti-biopic ferrariano di quest’anno. Affermazione che sembra valere anche per Welcome to New York, controcampo radicale che ci scaraventa negli occhi la vera malattia del XXI secolo: l’erotomania. Il DSK/Deveraux di Ferrara non ha niente dei giovani corrotti dal potere “permissivo” degli anni Settanta che spinsero Pasolini ad abiurare la Trilogia della vita. Non ne ha la grazia, l’innocenza, né la soave leggerezza. Il suo corpo è sfatto, molle, vecchio, mostruoso, completamente fuori misura, persino goffo, se pensiamo alla sequenza del tentato stupro, dove a stento riesce a tenersi in piedi. Il suo è un corpo grottesco, eccessivo, quasi caricaturale se non fosse quello del grande Gérard Depardieu, che con coraggio si cala nel ruolo fino alle estreme conseguenze. Perché il cortocircuito che Ferrara innesca nel prologo, dove vediamo l’attore francese prendere le distanze dal personaggio, non fa che rilanciare le corrispondenze tra i due uomini, i quali, non a caso, condividono le stesse iniziali (G.D) ed incrociano la stessa donna (la giornalista interpretata da Shanyn Leigh che assiste alla conferenza stampa di Depardieu, nel corso del film subisce un tentativo di molestie da Deveraux). La storia di Strauss-Kahn diventa allora, nelle mani di Ferrara, un racconto esplosivo sul crollo dell’immagine divistica e cinematografica, scaraventata in un’anonima prigione insieme a veri poliziotti e criminali comuni; e allo stesso tempo un’opera apocalittica sulla fine dell’uomo, consumato dalle proprie pulsioni. Con Welcome to New York Ferrara porta alle estreme conseguenze quel discorso sull’immagine e la sua produzione che ha contraddistinto l’ultima fase della sua carriera. Dalla crisi della soggettività maschile come messa in crisi del dispositivo (New Rose Hotel, Blackout) alla moltiplicazione degli sguardi come opera collettiva (4:44 Last Day on Earth) o segnale automatico delle telecamere a circuito chiuso (Go Go Tales), fino al confronto/scontro tra l’immagine televisiva e quella cinematografica (Mary). Quest’ultimo Welcome to New York si spinge oltre: l’immagine stessa del film, rappresentata dal corpo deforme del divo Depardieu viene inghiottita, sia pur momentaneamente, dalla “realtà”: si veda in tal senso tutta la parte centrale in cui lo sguardo di Ferrara sembra farsi trasparente, tra le celle e i corridoi del carcere. Le debolezze dell’uomo e dell’attore sono allora al centro dell’opera, che ci mostra, per quasi tutta la durata Deveraux/Depardieu alla costante ricerca del godimento. Non gliene frega niente della carica che ricopre o del suo glorioso passato cinematografico. In tutto il film lo vediamo solo una volta nel luogo di lavoro intento a farsi consolare dalle sue segretarie, che offre gentilmente anche alle guardie del corpo. Il fondo monetario internazionale resta sempre fuori campo, così come l’esercizio delle funzioni. In questo è molto distante dal Jordan Belfort scorsesiano in cui gli eccessi (sessuali e non) servono da un lato a migliorare la performance lavorativa e dall’altro a pervertire ed erotizzare l’immagine capitalistica. Qualsiasi azione conduce verso il denaro. Per Deveraux/Depardieu no, lui ha una sola ossessione: godere in tutti i modi possibili, il denaro è solo il mezzo attraverso il quale ottenere ciò che vuole; mai il fine. Con la sua sterminata ricchezza può affittare 5 escort in una notte, sprecare litri di champagne e alloggiare nel miglior albergo di New York, come nella prima parte del film, dove assistiamo ad un vero e proprio tour de force sessuale tra fellatio, penetrazioni, rapporti a tre, cunnilingus. La sua “ricerca” non trova però mai vero appagamento: più che l’orgasmo il fine di Deveraux sembra essere il controllo. Egli ama condurre il gioco, anche violentemente, istruendo le escort. Non a caso nella sequenza con la coppia lesbo partecipa solo in parte. Non ne ha più la forza. Ad un certo punto si mette in disparte a guardare, quasi invitandoci a fare altrettanto. La sua furia sessuale però non ha limiti, tant’è che poche ore dopo il festino aggredisce una donna delle pulizie. Ma la beffa è dietro l’angolo: l’accusa di stupro lo conduce prima in prigione, dove subisce l’umiliazione dell’ispezione corporale - apice della riflessione teorica di Ferrara - e poi agli arresti domiciliari, in un lussuoso appartamento affittato dalla moglie, novella Lady Macbeth contemporanea. L’espiazione dura solo pochi giorni: nella lussuosa prigione dorata si consuma uno scontro tutto interno alla coppia. In questo bellissimo scontro dialettico la colpa che si rinfaccia all’uomo non è l’adulterio bensì aver compromesso la campagna per le presidenziali francesi che lo avrebbero visto quasi certamente vincitore. Questo slittamento etico nega il consueto percorso redentivo dei personaggi ferrariani. Così alla punizione, sia pur momentanea, non segue alcuna redenzione. Perché, come ammette lo stesso Deveraux, nessuno vuole essere salvato davvero. Siamo tutti incatenati alle nostre ossessioni, e non c’è niente che possa farci cambiare. Nemmeno il fallimento della propria carriera politica. Questa consapevolezza, che illumina a ritroso l’intero percorso registico di Ferrara, ci consegna un’immagine del potere e del mondo a suo modo ancora più radicale di quella pasoliniana. In Welcome to New York il potere non ha il volto affascinante e cool di Jordan Belfort, ma quello ansimante e grottesco di Deveraux/Depardieu, vittima delle pulsioni esattamente come gli altri sui quali dovrebbe esercitare il suo potere.
La salvezza non è che un lontano ricordo del passato, una chimera, un residuato “novecentesco”, valido solo per i teorici in cerca di consolazione. Nel mondo raccontato da Ferrara, al contrario, l’uomo sembra destinato all’estinzione. Non ci resta allora che guardare, attoniti, quest’ultimo uomo/attore, infine “liberato” da qualsiasi funzione simbolica, mentre ci chiama direttamente in causa, ricambiando lo sguardo della macchina da presa. Andate tutti a fanculo!