Il nucleo era già stato pensato per farne un episodio di Hong Kong Express, opera a sua volta ricavata in una manciata di mesi durante la tormentata produzione di Ashes of Time. Poi, gli Angeli perduti di Wong Kar-wai hanno trovato fragile, mobile dimora in un film tutto per loro. Anche se lo sappiamo che il cinema del regista nato a Shangai sessant’anni fa è interamente attraversato da Fallen Angels angeli caduti: che sognano sempre – consapevoli o, spesso, meno – un proprio 2046; costretti a muoversi sulla terra – quasi sempre quella di Hong Kong, ma può essere anche più lontana, Singapore, l’Argentina, il Tennessee, Las Vegas, Cambogia – senza potere, senza saper volare. È sempre residuale il cinema di Wong: lo è tra un film e l’altro, tra sconfinamenti e ritorni; lo è il mondo che inventa, tra racconto ed esplorazione del linguaggio, è una versione rimanente della realtà; e sono residuali, così, necessariamente, i suoi personaggi. Ecco che allora l’amore fugge anche se non c’è Truffaut ma a trovarsi sono piuttosto Resnais e il videoclip, opposizioni che si incontrano, come il tempo, che è assoluto e imprendibile, eppure frantumato, ma sa svolgersi dentro immaginari pop; come la macchina da presa che dipinge figure meravigliose ma non internabili davvero nell’immagine; come il mélo e il noir che duettano, o l’oggi e la Storia, il ralenti e le accelerazioni, il bianco e nero e le intensità cromatiche, il grezzo e il sublime, la stasi e la coreografia folle e nervosa, il dramma e perfino il comico incastonato in un breve, dolce assurdo. È questa residualità a rendere i protagonisti figure di un anomalo “oltre”, di uno strano e cangiante fantastico, in uno spazio di reale che è indefinibile, avvicinabile allo spettatore ma inconoscibile.
Sono creature fantastiche gli angeli perduti del 1995, quando l’handover è solo a due anni dal realizzarsi e gli anni Zero sono appena appena più in là (magari in attesa a Taipei dello splendido inizio di Millennium Mambo negli occhi di Hou Hsiao-hsien e della sua deambulante notturna, bellissima Vicky/Shu Qi). A Hong Kong di metà ’90 le traiettorie imprevedibili sono quelle di creature troppo umane e, al contempo, alterità tutte cinematografiche, ma che non possono sfuggire le cose del mondo. Sono come puntini sparsi a caso su una carta, su una mappa misteriosa, una posa prima della fotografia; sono lì non si da quando, forse nati all’improvviso, sono linee che ora si sfiorano, per poco si toccano, si smarriscono, si attraversano in un istante, si lasciano, forse in qualche modo si trovano. Tendono al desiderio, non alle sue leggi, per questo soccombono nel loro privatissimo mood for love. Una ragazza e un ragazzo (Michelle Reis e Leon Lai) sono soci, non si sa bene come e perché: ma sappiamo che lui fa il sicario su commissione, entra in bische e squallidi locali con occhiali da sole e passo sicuro a inserirlo in una sorta di fumetto messo in musica, tira fuori le pistole e uccide mentre la soundtrack vira su First Killing e Second Killing di Frankie Chan e Roel A. Garcia (autori di quasi tutti i brani del film), che rimodulano Karmacoma dei Massive Attack. Dopo il lavoro, sale su un autobus, un suo vecchio compagno di scuola lo riconosce e lo invita al suo matrimonio; lui invece gli mostra indifferente una foto con una donna e un bimbo neri, suo moglie e suo figlio, dice, ma li ha visti solo quei pochi secondi, pagando per lo scatto. Questa è la sua vita, e ora la vuole cambiare, è stanco. La sua socia lo ama, forse anche lui. Lei si perde in Speak my Language di Laurie Anderson, nell’addio di Forget Him di Teresa Teng qui cantata da Shirley Kwan; la sua sigaretta trema quando sono vicini e lontani nel bianco e nero d’avvio; e fuma ancora anche mentre si masturba sul letto della camera dei colori acidi e crepuscolari, si muove di godimento e disperazione, pensando a lui. E poi. E poi Takeshi Kaneshiro: era il poliziotto di Hong Kong Express che cercava l’ultima speranza d’amore perduto in barattolini d’ananas a brevissima scadenza; in Angeli perduti invece è muto, a causa dell’ananas avariato mangiato una volta da bambino. Non ha più parlato. Adora il gelato mentre suo padre lo odia, perché un camioncino dei gelati ha investito sua moglie e l’ha uccisa. Guida la moto questo figlio, di notte occupa negozi e si improvvisa commerciante che importuna i malcapitati fino allo sfinimento, si innamora di una ragazza (Charlie Yeung) e la porta allo stadio per vedere Ruud Gullit.
Non sono protagonisti di nulla, questi angeli falliti, sono figure reali e trasognate, fantasmatiche ed ellittiche, di luce e di ombra, di notti e di neon, di falsi movimenti e falsi raccordi, immesse in trompe-l’œil allucinati, in una distorta e decadente, visionaria e postmoderna liaison tra l’insieme e il dettaglio, tra il tempo e il suo sentimento, tra l’amore e la sua impossibilità. Lo spazio urbano è una fantasmagoria parossistica di solitudine, una psichedelia del gesto, confusione di senso, è troppo reale già quasi virtuale, condanna a erranze senza approdi. Ciò che i personaggi esprimono è inesprimibile, sono nel tragico ma non lo sanno, sono in un film ma non lo sanno, anche se si comportano più da forme che da corpi, come immagini e immaginazioni, in questo strano vivere e morire ad Hong Kong in cui magari correre in the rain, uscendo da un McDonald’s che pare dimenticato dal mondo, insieme a una estranea (Karen Mok) in realtà già conosciuta tempo addietro e dimenticata. Non è un racconto morale, non è una storia né triste né felice, ma una teoria del contemporaneo: mimato, riprodotto, falsato, inventato. Wong Kar-wai accende la macchina da presa, lo sguardo sulle cose è in eccesso ma lucido. Ama le sue creature e decide infine di perdersi con loro.