The Grandmaster
Tra tradizione e reinvenzione, Wong Kar-wai accetta la sfida di una nuova epoca del cinema e dei rapporti tra Hong Kong e Cina continentale.
The Grandmaster è il punto di arrivo di un autore modernissimo, globale, autenticamente visionario. I lettori del nostro dossier dedicato a Wong Kar-wai sanno già quanto la sua opera abbia contribuito a gettare ponti tra Oriente e Occidente, cinema classico e bruciante modernità, favore di critica e del pubblico. Inventore di un linguaggio cinematografico nuovo, con lunghe radici che attingono alla tradizione europea della Nouvelle Vague così come al melodramma hollywoodiano classico e al cinema di genere, Wong ha creato un mondo e uno sguardo inimitabili. Il successo della sua opera ha contribuito, insieme agli altri autori del nuovo cinema hongkongese, a iniettare nuova linfa vitale a Hollywood e in Europa: i suoi sogni elettrici e le sue ombre urbane hanno fornito una mappa percettiva della modernità e dei suoi sentimenti liquidi.
The Grandmaster è un nuovo inizio; al tempo stesso, costituisce un ritorno alle origini, e un bilancio di decenni di cinema in un mondo che è profondamente cambiato.
Le novità sono tante: l’ultimo film del regista segue la scia di un’altra opera di rottura, ovvero l’incursione nel cinema occidentale che è stato il precedente My Blueberry Nights. Coprodotto e distribuito nella Repubblica Popolare, The Grandmaster è un tentativo di conquistare un nuovo pubblico e allargare le proprie radici oltre l’ex colonia inglese, verso la città di nascita (Shanghai) e la sinosfera con cui Hong Kong non può evitare di fare i conti. Un punto di non ritorno, che tuttavia mantiene intatto il senso della poetica del suo autore: The Grandmaster è, chiaramente, un melodramma sotto mentite spoglie. Anche in questo caso, il cuore pulsante del wuxia e del cinema di arti marziali viene smascherato come epica del sentimento e mitologia dell’uomo. Di nuovo, a contare non sono le storie o le vicende quotidiane, quanto i ricordi e il lento lavorìo della memoria che cerca di ricostruire il senso di passioni ed esilii senza via d’uscita.
The Grandmaster, va ribadito, è un’opera che risulta inscindibile da Ashes of Time, con il quale condivide una natura ibrida, quasi incompleta, come se si trattasse di un cantiere unico in cui raccontare le proprie storie in mondi diversi, fuori da Hong Kong e dalle sue opprimenti passioni. Due incursioni in generi cinematografici e ambientazioni radicalmente lontane dal mélo urbano e dalle luci della metropoli, che aiutano, nella sottrazione, a percepire una lancinante assenza e una dolorosa nostalgia. Questo vuoto, sembra dire Wong, sta al cuore dell’uomo stesso e della sua condizione: a sopravvivere, e a farsi bellezza, sono le aspirazioni e gli affetti di cui l’autore celebra la possibilità, il mito. Frammenti di templi e di memorie che sopravvivono nonostante tutto, nonostante se stessi.
La distanza da Hong Kong aiuta a mettere a fuoco sentimenti più ampi e questioni più grandi della metropoli asiatica, come il suo rapporto con la Grande Cina e il senso di sradicamento degli abitanti di questa città apolide, dove centro e periferia si compenetrano: una enclave di migranti dove tutti, in un certo senso, sono stranieri. Lo stesso discorso vale, in parte, anche per i viaggiatori e i migranti di Happy Together e My Blueberry Nights: gli amori e i furiosi litigi messi in scena da Wong sono visti dagli occhi di nomadi irrequieti, rifratti sui finestrini di un treno, distorti dalle sporche vetrate di una bettola la notte prima di spiccare il volo.
Il centro drammatico di The Grandmaster è la fuggevole e mai realizzata storia d’amore tra Ip Man (Tony Leung) e Gong’Er (Zhang Ziyi). O, se vogliamo, tra Nord e Sud, tra Hong Kong e Cina e le loro rispettive cinematografie. Un corteggiamento marziale che raggiunge il suo culmine nel silenzio delle coscienze e nel tumulto di un duello che è anche una danza senza alcuna risoluzione, erotica od eroica che sia. Dopo l’attimo irripetibile di contatto, non può che seguire la distanza e il rimpianto, i fiori del male di cui il melodramma di Wong si nutre e non può fare a meno. I giochi sono già fatti, rien ne va plus: queste passioni, sembra dirci Wong, vivono fuori dal tempo come questi uomini che ne sono dominati, orgogliosi alfieri di tradizioni irrimediabilmente compromesse.
Supportato dalla fama del suo protagonista e dai recenti biopic dedicati ad Ip Man (Ip Man [2008] e Ip Man 2 [2010], diretti da Wilson Yip, The Legend is Born – Ip Man [2010] e Ip Man – The Final Fight [2013] di Herman Yau), il nostro autore lascia al suo pubblico il compito di evocare gli eventi biografici e storici che racchiudono la parabola di The Grandmaster, limitandosi a qualche breve inserto di materiale d’archivio. Tra due scene o due sguardi possono trascorrere decenni, paurose ellissi che ci ricordano quale sia il tempo che a Wong sta davvero a cuore: il tempo qualitativo degli amori e delle agnizioni, incrinature nel flusso di un tempo del quotidiano che non sopravvive né alla Storia né alla coscienza. Questi momenti di rottura sono messi in scena con il virtuosismo ipnotico che ben conosciamo, tra giochi di specchi e riflessi, sdoppiamenti, policromie percettive. Supportato da un corposo budget, Wong gioca con nuovi strumenti e adatta l’estetica del genere alla sua sensibilità artistica: il risultato è una elaborata coreografia a metà tra Zhang Yimou e il teatro astratto, animata dall’abbondanza di effetti speciali e dalla vertiginosa danza dei punti di vista.
Al netto di alcuni eccessi in CGI e qualche compromesso di scrittura, l’incantesimo funziona e avvince. Qualche turbolenza distributiva ha portato alla distribuzione di copie di minutaggio diverso, alcune delle quali brutalmente tagliate: la versione distribuita in Cina resta la più completa, ma permane la sensazione che l’opera pensata dall’autore sarebbe stata molto più lunga rispetto a quella uscita nelle sale. Persino nell’edizione cinese, quella più completa, è chiaro che qualche tassello importante sia stato rimosso brutalmente rispetto alla versione concepita da Wong (che, si dice, si aggirava intorno alle quattro ore di durata).
Dopo The Grandmaster, siamo certi che Wong Kar-wai abbia ancora molto da dire e nuove prospettive con cui arricchire il nostro immaginario. La prossima sfida sarà, probabilmente, nella direzione della serialità web e televisiva: Wong è al lavoro su Tong Wars, serie dedicata alla storia di una migrante cinese a San Francisco e alla sua ascesa nel mondo del crimine. Viene da chiedersi quanto dello stile di Wong possa sopravvivere al formato lungo della narrazione seriale, ma siamo certi che questo autore nomade e autenticamente globale sia all’altezza della sfida.