Cocaine - La Vera Storia di White Boy Rick
La spaventosa storia di White Boy Rick raccontata nel secondo film del francese Yann Demange. Un noir vasto e ambizioso, più complesso di quanto appaia.
La vicenda da cui parte Cocaine – La vera storia di White Boy Rick di Yann Demange è talmente assurda, talmente incredibile e talmente significativa, che poteva soltanto essere vera. Ha il sapore della leggenda metropolitana, e negli anni lo è diventata, o almeno qualcosa di simile: uno spauracchio, una tragedia mitopoietica di una città (Detroit) che da allora non ha fatto altro che sprofondare ancora.
Nel 2017, Richard Wershe Jr. è uscito dal carcere dove ha passato gli ultimi trent'anni di vita. Il film, accolto con comprensibile sospetto in patria, ne racconta finalmente la vicenda, provando a tracciarne la portata spaventosa.
Rick Wershe Jr. (Richie Merritt), 14 anni, white trash di Detroit, figlio di Rick Sr. (Matthew McConaughey), vive insieme al padre nello scenario postapocalittico dell'ex patria del trionfo fordista. Siamo a metà anni '80, e la città è un inferno di povertà e crimine (generò Robocop, per dire). Wershe Sr., un disperato con un'irrazionale fiducia nell'american dream più rampante, vive comprando fucili d'assalto nei Gun Shows, le fiere delle armi libere acquistabili da privati senza documentazione. Il piano: rivenderle da incensurato alle gang di afroamericani che in quel periodo stanno scoprendo sulla propria pelle gli effetti dell'epidemia di crack (non certo della cocaina, come il titolo italiano fa supporre: piuttosto la sua variante mortale e low-cost).
C'è Reagan, e c'è una “guerra alla droga” di dubbia natura da combattere per le strade. Rick Jr., “White Boy” per i ragazzi di colore che costituiscono il 100% delle sue frequentazioni, è nato e cresciuto tra i gangster di quartiere. Se ne accorge l'FBI, che in un'operazione apparentemente segreta spinge il ragazzino allo spaccio, fornendo personalmente crack e soldi. Per un informatore in più, questo ed altro. Se la talpa è giovane, impressionabile e facilmente scaricabile, meglio ancora. Rick scoprirà presto di non poter più abbandonare il gioco, neanche volendolo. E quando la situazione sfuggirà di mano a tutti, finirà abbandonato e sacrificato al giustizialismo USA da quegli stessi che l'avevano spinto nell'ingranaggio.
Tutte queste componenti, tutte queste intuizioni e trame tangenti Cocaine le sintetizza con sapienza in centodieci minuti di grandiosa ricchezza tematica. La tragedia del suo anti-eroe è emblematica di realtà che vanno ben al di là del semplice racconto crime: il coinvolgimento del Governo americano nell'espandersi dell'epidemia; la follia della war on drugs, che genera più morti e vite distrutte di quante non pretenda di salvare; il terrore sociale dei narcotici e la feticizzazione delle armi da fuoco; le generazioni di ragazzini usati come carne da cannone in una guerra che non si può vincere e nella quale le forze dell'ordine hanno più di un interesse in gioco. E White Boy Rick, dato in pasto al sistema da quegli stessi che pretendono di combatterlo, e che non esiteranno ad abbandonarlo nel momento in cui le strategie del Bureau rischieranno di essere rese pubbliche. Ponendosi di raccontare tutto ciò, è inevitabile che il focus del film di Demange tenda a perdersi per strada.
Con un po' di timore, le implicazioni politiche della storia vengono quindi messe in secondo piano. Cocaine vira verso un più consueto racconto scorsesiano di formazione criminale, con lo spettatore chiamato a dare il giudizio morale. Ancora un ragazzo che “ha sempre sognato di fare il gangster”, stavolta perché incapace di immaginare un futuro di benessere nei deprimenti sogni di gloria di quel fallito di suo padre (che vorrebbe aprire una catena di videonoleggio, nientemeno). White Boy Rick racconta - ancora - un rapporto padre-figlio, con il personaggio di MacCounaghey inconsapevole corruttore di quel ragazzo che pure ama sinceramente. Ed è l'amore per il padre, con la sua retorica patetica del self-made man e la fiducia in un sogno americano dai contorni distopici, a spingere Rick Jr. in bocca agli squali: non i ragazzi neri degli hoods, poveri e disperati quanto lui, quanto i mostri che pattugliano le strade notturne dentro automobili blu.
Whte Boy Rick, ignaro insetto schiacciato dai macchinari di un'istituzione metafisica e maligna, è protagonista di una parabola che ricorderebbe più i capolavori televisivi di David Simon che non Scorsese. Ma lo script (a otto mani, Steven Kloves di Harry Potter incluso), un po' per paura un po' per timidezza, sceglie di lasciare sullo sfondo gli elementi politici più spaventosi della vicenda. Cocaine vira sul privato, le implicazioni sociali restano suggerite, e il racconto si chiude anzi con una nota vagamente melensa sulle “scelte sbagliate” di Rick e sui cattivi modelli della sua vita. Il secondo film del regista francese (dopo il non dissimile 71) diventa quindi una tragedia personale sui sogni infranti del proletariato yankee, presentato in uno slancio umanista come un sottomondo multirazziale e solidale, dove la guerra tra poveri non esiste e le minoranze più marginali appaiono unite nella loro miseria, e nell'illusione di tirarsene fuori o morire provando. Un bel dramma umano dai contorni morali, che con più ambizione e dieci minuti in più sul terzo atto sarebbe potuto essere un capolavoro.