C'era una volta a... Hollywood
Una favola che è un atto d'amore, una celebrazione della finzione cinematografica e di tutto ciò che in essa si crea, vive e poi scompare.
Chi ne fa una questione di stile, non si troverà più di tanto in questo C’era una volta a… Hollywood. Ci si chiederà, magari, dov’è il pulp e l’ironia metacinematografica? Dove sono le secchiate di sangue e gli ammiccamenti avantpop, le battute forbite e le soluzioni b-movie amate, assorbite e risputate fuori? Dov’è la mano tarantiniana, che gioca e manipola il cinema post-post quello che volete? Ma il fatto è che il primo a non essere più tarantiniano, e già The Hateful Eight ce lo aveva detto benissimo, è proprio Quentin Tarantino, che arrivato alle soglie del decimo film ci regala un’opera intima e romantica come mai prima, un gesto d’amore fatto da chi anzitutto vuole restituire qualcosa al cinema, ai suoi mondi infiniti e ai personaggi umanissimi ed esagerati e sofferti che li hanno popolati, e che da questo dono ricava la favola definitiva sull’America e sulla sua natura essenziale di terra dell’immagine.
È un rapporto pervasivo e inscindibile quello che lega gli Stati Uniti al loro immaginario, alla loro capacità di definire sé stessi e il loro orizzonte di valori, miti, leggende, attraverso la moltiplicazione e il consumo delle immagini. C’era una volta a… Hollywood mostra un paese intessuto di immagini, ossessionato da grandi e piccoli schermi che diventano lo strumento non tanto per conoscere e plasmare il mondo quanto noi stessi e l’idea e l’immagine che abbiamo di noi, dei nostri ricordi, del nostro amore. Non è mai stato così sfacciato e generoso Tarantino, perdutamente innamorato e perso in un film che resuscita il cinema anni ’60 alle porte della rivoluzione innescata dalla New Hollywood ma assorbe in sé anche il serial anni ’50, la prima televisione di massa, l’ossessione per i pilot e il panico di vecchie star del b-movie che sanno di non trovare spazio nella nuova stagione cinematografica in arrivo. Impresso nell’ocra pastoso e sporco di terra tipico di quel tempo, il racconto dell’amicizia tra Rick Dalton e Cliff Booth però è tutt’altro che un gesto intellettuale di archeologia cinefila fine a sé stessa; Tarantino vive ovviamente dei suoi e dei nostri feticismi, ma l’amore e la consapevolezza che trasudano da C’era una volta a… Hollywood rendono questo film non solo un miracolo filologico e citazionistico spuntato direttamente dal passato, ma un’elegia umanissima e vitale dedicata alla fine di un’era e all’infinita carrellata di volti e corpi che hanno alimentato quella macchina magica e salvifica anche a discapito di loro stessi e delle loro esistenze. I said, baby, baby, baby, you're out of time, cantano i Rolling Stones mentre Sharon Tate vive le sue ultime ore e tutte le infinite insegne di Los Angeles si accendono, una alla volta, una carrellata di neon e lampade incandescenti e scritte e fasci di luce che tagliano la notte, come una coltre di cinema che accompagna la dama di un regno incantato al suo appuntamento col destino, o a quello che forse è un nuovo inizio che redime e risolve le storture del reale.
Ogni favola è un atto d’amore, un racconto che narriamo a chi amiamo per condividere e far rivivere qualcosa che non è stato, che quasi è stato, e che nel frame dell’inquadratura può e finalmente riesce a essere. Sulla scia di Bastardi senza gloria, Tarantino continua a chiamare in causa la Storia e i drammi collettivi, passando dall’orrore del genocidio alla schiavitù sudista per approdare qui al trauma per eccellenza del sogno californiano, la summer of love che in una notte di sangue si rovescia di senso e diventa il marchio a fuoco di un incubo, l’orrore silente che abbiamo amato e cresciuto e che si risveglia per porre fine a ogni forma d’innocenza. Ma non è solo questo Sharon Tate, meravigliosa ed eterea Margot Robbie, una figura leggiadra e innocente che si muove sognante a dieci centimetri da terra, che svolazza tra le vie di Los Angeles e si rifugia poi in sala per ritrovarsi sul grande schermo, emozionandosi come una bambina mentre il pubblico ride e grida e fa il tifo per lei. In fondo, a cosa serve il miracolo di questa scatola magica, che cattura e preserva fantasmi e tempo, o genera ricordi e realtà nuove, se non a preservare questa sacra innocenza? I bastardi, armati di esplosivo e dna da b-movie, hanno potuto regalare al mondo una vendetta di fuoco e la fine tempestiva della guerra; C’era una volta a… Hollywood invece si spinge un passo più in là e devia la mano e il coltello prima ancora che il trauma sia compiuto, cambiando la Storia grazie all’intervento di due outsiders in cerca di un lieto fine, principi azzurri alcolizzati e depressi e marchiati nel corpo che ancora non hanno trovato la loro principessa.
Assieme, Rick Dalton e Cliff Booth sono davvero il segno di quanto il cinema di Tarantino sia libero da schematismi e dottrine precostituite, e sempre più lontano dai gesti eversivi con cui negli anni Novanta decostruiva un’industria tutta e il suo immaginario. Viene in mente l’intervista di David Foster Wallace a Larry McCaffery, in cui lo scrittore lamentava nei nuovi autori postmoderni l’incapacità di chiudere con l’ironia e la dissacrazione, e la non volontà di mettere da parte lo stile per riprendere a costruire. Ecco, il cinema di Tarantino è invece oggi pura ricostruzione, è dialogo con il passato ma non cinefilia cieca e moribonda, è un cuore classico che sempre più si nutre della forza primigena del campo/controcampo e della profondità di campo, è la scoperta dell’emozione e dell’empatia, il dilagare di quel sentimento rimasto finora sottotraccia in questo cinema, esploso tutt’al più in pochi momenti di umanissimo dolore. La storia d’amore fraterno tra Rick Dalton e Cliff Booth è Tarantino come non lo abbiamo mai visto, in un film che come mai prima gira a vuoto e si intesse sul quotidiano susseguirsi degli eventi, e che in quest’andatura orizzontale, pressoché antinarrativa, restituisce due personaggi complessi e fragili alle prese con il tempo che scorre e tutto cambia. E in questa celebrazione della finzione cinematografica, e di tutto ciò che in essa si crea, vive e poi scompare, Tarantino riesce anche a dire l’ultima parola su quel rapporto tra violenza e immagine che da sempre attraversa il suo cinema. Buca lo schermo il momento in cui l’incarnazione di Patricia Krenwinkel, una dei tre componenti della famiglia Manson presente quella fatidica notte, afferma di volersi vendicare di tutti quei divi che da anni vomitano violenza e fascismo attraverso i loro serial e film trasmessi in televisione. In un contrappasso delizioso sarà poi lei a finire carbonizzata nella prima vera escalation pulp del film, a sottolineare definitivamente la povertà di ogni rapporto causa effetto tra la violenza cinematografica e quella reale, e anzi la forza rigeneratrice e vitale che può avere questo grande castello immaginario e magico e carico d’amore che è il cinema. Anche, e soprattutto, quando assume la forma di un lanciafiamme brucia-nazisti adattato alla difesa del sogno e della quiete domestica.