Yōji Yamada è una leggenda della settima arte che ha attraversato oltre mezzo secolo di cinema giapponese. Erede di Yasujiro Ozu, è un autore che definiremmo "tradizionale" nello sguardo e nella sensibilità. Il suo è stato quasi sempre un cinema del contemporaneo e delle persone comuni, il gendaigeki: nel suo caso, ritratti del quotidiano e saghe del popolo, come quella di Tora-San, il vagabondo sfortunato a cui Yamada ha dedicato una cinquantina di film.
Kyoto Story è qualcosa di diverso. Sembra quasi che Yamada volesse fare il punto su cinquant'anni di cinema e che, per farlo, dovesse partire dal basso: una storia popolare, in un piccolo quartiere, costruita insieme ai suoi studenti universitari.
Kyoto Story è, a un primo livello, un film romantico. Si tratta di una storia di "persone comuni" come Tora-San: artigiani, lavoratori, famiglie che vivono all'ombra delle metropoli iperreali del Giappone. La trama si svolge attorno al triangolo amoroso tra Kyoko, il fidanzato Kota e un imbranato professore classicista che si innamora perdutamente di lei. Kota è ambizioso e vuole fare il comico, non dà alcun valore al lavoro dei suoi genitori che producono tofu. Kyoko si lascia tentare dal professore e le viene offerta l'opportunità di fuggire con lui a Pechino. La ragazza sceglierà di restare e accetterà di continuare a vivere in un piccolo quartiere, lontano dalle luci della ribalta.
La tensione tra tradizione e modernità si riflette, a un secondo livello, su quella che è la seconda storia di Kyoto Story. Si tratta della storia di un quartiere di Kyoto, Uzumasa, e di un tassello del cinema del Giappone ormai scomparso. Attraverso le tracce urbane e la memoria di chi è rimasto, Yamada scava profondamente nel tessuto sociale del quartiere, dove si trovava la sede di uno dei principali studi cinematografici del Novecento giapponese, la Daiei. Alla Daiei hanno lavorato nomi del calibro di Akira Kurosawa ed è qui che è nato Rashomon (1951), uno dei più grandi successi internazionali del cinema nipponico. Un quartiere densissimo di ricordi e di cinema. Una fabbrica di immaginari dismessa che diventa, ancora una volta, un set cinematografico dove far germogliare nuove storie.
Molti degli abitanti del quartiere ricordano bene quando il cinema dettava i tempi della vita e dell'economia locale. Il film è intessuto delle loro biografie, sotto forma di brevi interviste in cui raccontano se stessi tra ricordi, cambiamenti e prospettive future. In un salto quanto mai efficace tra finzione e realtà, molti di questi abitanti diventano attori del film, spesso interpretando se stessi: studenti, artigiani, titolari di lavanderie e piccole attività commerciali sulla pittoresca via dei negozi. Yamada (qui supportato dal co-regista Tsutomu Abe) dedica questo omaggio allo studio rivale attraverso un film garbato nei movimenti e nella messa in scena, che si muove tra i registri del documentario e del cinema classico e che rimanda direttamente all'anima più tradizionale del cinema giapponese: certe inquadrature sulla riva del fiume sembrano ricalcare da vicino quelle del suo maestro Ozu in un classico come Buongiorno (1959); in altri momenti, sembra già di vedere scene di Tokyo Family (2013), il suo grande omaggio al capolavoroViaggio a Tokyo (1953).
Il risultato è un film vitale e denso di emozioni che non teme di accostare senza soluzione di continuità documento e finzione, prosa e poesia. Emerge il ritratto composito di una città: polis, crocevia, intreccio fitto di storie e temporalità differenti. Come ha fatto Jia Zhangke con I wish I knew (2010), Yamada e i suoi studenti ritrovano il senso di una città a partire dal cinema. Un progetto comune, fatto di sogni quanto dei vincoli irrimediabili della realtà.