Tokyo Family
L'omaggio, la sfida, la critica e il remake del film più importante della storia giapponese: Yoji Yamada si confronta con il maestro Yasujiro Ozu, e in "Tokyo Family" racconta i sessant'anni trascorsi dal primo "Viaggio a Tokyo".
I remake hanno dignità, sempre. Il cinema è un'arte nata ieri, e solo deviando storie conosciute, adattandole al proprio percorso, ha potuto costruirsi una sua mitologia. Ogni film è un remake, come vuole la famosa storiella del produttore di Hollywood per il quale esisterebbero solo dieci plot (sette secondo Christopher Booker, tre secondo Borges). Dichiararsi remake o meno è alla fine solo questione di onestà intellettuale. In fondo, La grande bellezza non stava a La dolce vita come Tokyo Family a Viaggio a Tokyo?
Il decennio 2010 trova Yoji Yamada in fase pre-pensione. Arrivato il plauso critico in tarda età con la celebratissima trilogia chanbara (di cui Raiplay propone il conclusivo Love and Honor), il regista può permettersi di indulgere in operazioni apparentemente bizzarre; e poche lo sono di più di Tokyo Family. Per quanto sdoganato, il remake è pratica solitamente legata al “genere” (i tre film di samurai farebbero un saggio a sé proprio nel loro rapporto con diversi miti del jidai-geki); applicarlo a quella che è forse l'opera narrativa fondante di tutto il novecento giapponese quale è Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu, fa storcere il naso. E ci sono cascati in molti, liquidando il film come sorta di esperimento meta fine a se stesso, al limite dello shot by shot a la Van Sant; presunzione tra lo sfizio d'autore e l'opera di servizio pubblico atta a celebrare il sessantesimo anniversario del classico. E sarà pure stato così. Ma omaggiando il capolavoro (sul set del quale il giovanissimo Yamada fu assistente), Tokyo Family non fa che rinvigorirne la potenza e l'universalità.
I settantenni coniugi Shukichi e Tomiko Hirayama sono ancora una volta in visita ai figli adulti nella Capitale, che oggi prova faticosamente a rialzarsi dalle recenti tragedie naturali (Fukishima, Tohoko) e da una recessione perenne. La presa di coscienza dell'ormai avvenuto allontanamento avverrà in tappe identiche al prototipo; per il novanta per cento delle scene, il film di Yamada e quello di Ozu sono uguali. Ma apportando le proprie correzioni agli interstizi scoperti dello script originale, si palesa tutto l'universo che ci separa dal 1953.
Viaggio a Tokyo era la testimonianza di una devastante transizione, raccontata con il sereno (o rassegnato) sguardo shintoista di chi vive la morte e il cambiamento senza il terrore millenarista della Fine. Era ovviamente l'elegia di una generazione e di un Paese che soppiantavano quello vecchio, attraverso il trauma e il sacrificio rituale della Guerra Mondiale.
Nel film di Ozu, Tomiko (Chieko Higashiyama) e Shukichi (Chishu Ryu) venivano isolati, ignorati e infine dimenticati in un attimo da una giovane società nascente, non più bisognosa di loro. Si accomiatavano ricordando alla nuora e vedova Noriko (Setsuko Hara) la necessità di liberarsi definitivamente da un passato opprimente: un passato oggi morto, come loro. Un capolavoro immortale, al bilico indefinibile tra la speranza e l'amarezza; che nella visione di Yamada non poteva che mutare ancora.
La deviazione dal binario che Tokyo Family prende per diventare un film proprio sta nella figura del nuovo protagonista, Shoji Hirayama. Lui, marito di Noriko, che era morto in guerra nel film del '53 (era l'agnello il cui sacrificio aveva portato il progresso all'ex Impero di Hiroito), è un ventenne vivo e vegeto, suo malgrado, nel 2013. Shoji e Noriko sono qui, ma è come se non lo fossero: una nuova generazione perduta, tagliata fuori persino da quei lavoretti gretti e borghesi (parrucchiera, pediatra) che non sono stati negati ai fratelli maggiori.
In Viaggio a Tokyo l'orrore (l'imperialismo, la guerra) era il passato; il futuro era un luogo più solitario, ma tutto sommato luminoso. In Tokyo Family l'orrore è adesso, un orrore silenzioso e senza bombe, in cui è il futuro stesso a essere negato. C'è una nerissima linea di corrispondenza, suggerisce Yamada, tra i ragazzi morti nel '45 e questi millennial; una gioventù buttata, vedova di se stessa in un Giappone moribondo, e a cui provare a restituire un briciolo di quella speranza a cui neanche gli anziani sembrano più credere.
Tanto compassionevole per i nuovi figli, tanto Yamada si riscopre sottilmente cattivo nei confronti dei “vecchi”; in fondo, gli Shukichi e Tomi del 2013 sono gli stessi boomer che mezzo secolo prima, giovani rampanti, abbandonarono i loro genitori (dunque se stessi, gli Shukichi e Tomi del 1953) all'alba del boom consumista giapponese. Ozu raccontò quella frattura come un drammatico tradimento storico; lo Shukichi di Yamada, così intollerante, così lamentoso e pretenzioso nei confronti delle mancanze economiche dei figli, sembra quasi cercarsi quel destino da Uncle Scrooge cui la storia, inevitabilmente, lo relegherà.
Ma né Tokyo Family né Viaggio a Tokyo sono film di rancore o di conflitto. Yamada non è un giovane arrabbiato, non ha nulla da pretendere. Lui appartiene alla generazione di Ozu, di Mikio Naruse, e oggi, alla scuola di Kore'eda. È un cinema poetico e contenutista, eccezionalmente giapponese, che procede serenamente parallelo alla violenza immaginifica e dunque politica di quell'altro cinema nipponico, che da Wakamatsu arriva fino a Miike e al mondo anime. Quello di Yamada è un filmmaking formale come la sua cultura, che riconosce nella ritualità e nel rispetto del gesto la forza capace di trascendere il tempo e la storia. Come sessant'anni prima, si chiude ancora su un vecchio orologio regalato, da uno ieri appena sepolto a un domani che sarà sempre peggio; a concludere una guerra generazionale, in fondo, mai davvero voluta.