Maniac
Apice produttivo di casa Netflix, la miniserie diretta da Cary Fukunaga manca di profondità e sguardo, quel che resta è un viaggio nell’inconscio di povero di scrittura che spesso sconfina nel banale.
Secondo Friedkin l’inseguimento rappresenta la più pura forma di cinema, dato che l’audiovisivo è l’unico medium in grado di ricreare e trasmettere allo spettatore la pienezza dell’esperienza di due auto lanciate una dietro l’altra. Giocando con il celebre aneddoto potremmo dire la stessa cosa della mente: solo il cinema – con l’importante eccezione del linguaggio videoludico – è in grado di spazializzare la mente, di offrire una rappresentazione attraversabile, tangibile e assieme infinita nelle sue possibilità ricombinanti del mondo interiore e dell’inconscio. Letteratura, musica, teatro, possono certo evocare, descrivere, ingannare, tuttavia solo all’interno della finzione cinematografica la mente diventa qualcosa che possiamo effettivamente esperire.
Non a caso sono molti (e in costante aumento grazie alle risorse dell’immagine digitale) i film e le serie tv che ci portano dentro i pensieri, le paure e i desideri dei personaggi, in mezzo a sentimenti e ricordi e fantasie e traumi che prendono vita e soprattutto spazio, diventando luoghi fisici seppur soggetti ad alcuna legge fisica. Tra gli esempi più evidenti di quest’approccio possiamo citare con facilità Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Inception, due titoli che tra ricordo e sogno cercano di restituire allo spettatore uno spaccato di interiorità, e che non a caso prendono entrambi la forma del viaggio a ritroso, della catabasi atta a permettere ai personaggi di raggiungere un qualche livello di profondità interiore. Su questa scia si colloca anche Maniac, che dei due film citati è figlia e forte debitrice. Infatti la miniserie Netflix, ispirata da un’omonima produzione norvegese, punta a restituire un attraversamento interiore attraverso i meccanismi di genere offerti dall’immaginario cinematografico, un insieme di mondi inventati che come livelli vengono superati un poco alla volta verso una catarsi finale.
Il senso profondo di Maniac ruota proprio attorno al tentativo di dare una dimensione spazio/temporale ai traumi interiori dei due protagonisti, Annie e Owen, interpretati con intensità da Emma Stone e Jonah Hill (anche se alla coppia centrale si affianca un terzetto altrettanto se non più problematico, che vede coinvolti i personaggi di Justin Theroux, Sonoya Mizuno e Sally Field).
Come in Inception i due personaggi si troveranno ad attraversare i diversi stadi della loro mente, organizzati per realtà parallele rispondenti a generi diversi: nel corso dei suoi dieci episodi Maniac si muove attraverso il gangster movie e la spy story, il fantasy e il pulp suburbano, situazioni ricreate sempre con grande perizia tecnica dal regista di tutta la miniserie, Cary Fukunaga (non a caso prossimo regista di 007). Anche il mondo reale che fa da cornice al racconto si muove attraverso binari consolidati, essendo il frutto di un mondo retro-futuristico e vagamente distopico in cui l’estetica e la tecnica degli anni ’80 sono diventati la base per ogni evoluzione tecnologica. E qui troviamo evidentemente tracce di Michel Gondry, il cui tocco artigianale diventa la base per la riproduzione di una tecnologia fatta di video, megacomputer, pixel quadrettati e colori sgargianti. Ma del capolavoro di Gondry e Kaufmann, Fukunaga e il suo sceneggiatore Patrick Somerville prendono soprattutto il tema del legame sotterraneo e indissolubile tra due persone, quel contatto che risuona a discapito di ogni correzione tecnica o difficoltà interiore. Come i personaggi interpretati da Jim Carrey e Kate Winslet, Annie e Owen cercano di sfuggire al dolore per infine ritrovarsi, con l’aggravante qui che non siamo più in una fuga dal ricordo ma dalla realtà stessa. L’aspetto più interessante di Maniac è proprio questo, raccontare da una parte l’ossessione della società moderna per una cura a tutto – dolore, insicurezza, colpa, lutto – e mostrare dall’altra come un superamento sano di questi nodi traumatici possa permetterci di uscire da noi stessi per ritornare a contatto con le persone che ci circondano.
A questo punto però diventa necessario chiedersi, basta questo a rendere Maniac una miniserie riuscita, e soprattutto all’altezza della sua qualità produttiva, vetta indiscutibile di quanto prodotto da Netflix sino a questo momento? Purtroppo no, affatto. Perché nei dieci episodi che formano il racconto troviamo davvero poco che offra un approfondimento reale e un’esplorazione impegnata dei temi messi in campo. I viaggi mentali che si manifestano durante i tre stadi della sperimentazione farmaceutica a cui si sottopongono i personaggi sono pressoché siparietti auto indulgenti e pretenziosi, tanto riusciti dal punto di vista tecnico quanto superflui se non irritanti per quanto riguarda lo sviluppo (mancato) del percorso drammatico, incapaci come sono di portare avanti un discorso forte riguardo la psicologia dei personaggi o i temi messi in campo. Dei vari scenari attraversati si comprende lo scopo e la funzione – porre i protagonisti di fronte i loro traumi con crescente intensità, giocare con il potere evocativo dell’immaginario cinematografico, visto come via di fuga dal reale e assieme strumento per raggiungere una catarsi – ma quanto ci arriva, realmente, di tutto questo? Quanto traspare a livello di scrittura e regia di un’idea che resta soltanto dichiarata, spesso sbandierata, ma a conti fatti mai realmente indagata? Maniac soffre di una carenza fatale di sguardo e profondità di scrittura, tutto resta sul livello più superficiale dei referenti cinefili e di tendenza, tanto da suggerire l’idea di aver assistito, alla fine di un viaggio sconclusionato e povero di idee, ad un assembramento meccanico di suggestioni e argomenti non solo preesistenti ma appiattiti, banalizzati, impoveriti. Maniac è colma di piccoli legami sotterranei, giochetti e strizzatine d’occhio allo spettatore, costanti divagazioni interiori. Molte cose, nessuna delle quali però può sostituire una seria, robusta scrittura drammatica.