Dossier Paul Verhoeven / 5 - Spetters (Spruzzi)
Con un film "maledetto", ricco di elementi forti ma mai vacuamente provocatori, Verhoeven si avvicina all'immaginario hollywoodiano reinventandone protagonisti e situazioni.
Film “maledetto” in una carriera già avvezza allo scandalo e alla provocazione, Spetters è l’opera di Paul Verhoeven che è riuscita a far infuriare le più diverse fasce di pubblico: dal mondo omosessuale a quello femminile, dagli oltranzisti religiosi ai moralisti borghesi. Sotto attacco ancora una volta lo sguardo senza filtri del regista olandese, che come sempre si pone frontalmente alla materia trattata, in un rapporto orizzontale che nulla risparmia e nulla giudica, limitandosi a servire con un lirismo della carne l’amata e sporca umanità dei propri personaggi. Nella lista dei nemici di Spetters troviamo anche Hollywood, le cui porte si chiusero in faccia al regista quando era ad un passo dall’ottenere la regia de L’impero colpisce ancora. Il peccato mortale di Verhoeven? Aver portato con sé al colloquio coi producers una copia di questo suo ultimo film…
Con lo sguardo di oggi Spetters non si rivela certo un film vacuamente provocatorio: le sue scene di nudo, al limite del registro pornografico, e l’ambiguità morale di situazioni e personaggi sono tutt’altro che gli ingredienti scandalistici di un cinema volto allo shock più facile e gratuito. Il cinema di Verhoeven, specie nel suo periodo olandese, ne è l’esatto opposto, e Spetters lo afferma con un orgoglio autoriale che ancora oggi sorprende e ferisce per come riesce a riportare sullo schermo lo squallido e mortifero mondo di Eef, Hans e Rien, il terzetto di giovani bikers che tra avventure erotiche e ambizioni sportive cerca di evadere dalla periferia post-industriale della Rotterdam di fine anni Settanta. Il ’68 e i suoi moti rivoluzionari sono ormai un lontano ricordo, un’esperienza generazionale che non appartiene ai protagonisti del film e che Verhoeven mostra proprio nella sua assenza, un vuoto politico colmato da arrivismo sessuale e agonistico. Che si tratti di sedurre poliziotti o giornalisti come fa l’avvenente Fientje, o di tentare la scalata sportiva come Hans e Rien, il destino di questi personaggi resta ancorato ai luoghi che ne determinano lo squallore e l’incertezza. Nonostante il talento o un uso spregiudicato del proprio corpo, le prospettive di fuga restano sempre tali, idee all’orizzonte, sogni di ragazzi ingannati da una vita che non offre definizione, identità, successo.
Come nel precedente kolossal bellico di Soldato d’Orange, anche qui Verhoeven costruisce la narrazione attorno ad un nucleo di amici, i cui rapporti verranno infranti prima che dall’avvenente Fientje dalle ambizioni e tensioni personali. Ad incarnare meglio l’amarezza di fondo che anima Spetters è probabilmente la parabola di Eef, meccanico dei due amici motociclisti che sogna di abbandonare una vita grama e alienata con una fuga in Canada. Per pagarsi il biglietto inizierà ad aggredire marchette omosessuali in giro per la città, fino a che quello stesso gruppo si rivolgerà contro di lui abusandone sessualmente. Ma Eef è già compromesso da un rapporto di violenza con il padre ortodosso, che ne giudica lo stile di vita e sfoga la sua frustrazione picchiando il giovane. Anche qui un abuso, questa volta d’autorità, che in qualche modo si insinua nei bisogni malridotti di Eef mescolandoli forse irrimediabilmente alla sofferenza. Il risultato è che Eef deciderà di rinunciare al viaggio per restare lì, a Rotterdam, prima tra le braccia di uno dei suoi stupratori e poi in conflitto aperto con il padre, per ribadire quell’omosessualità così sofferta. Peggio di lui finisce solo Rien, con il suo incidente e la sua disperazione da sconfitto, mentre Hans si accontenterà di dividere un locale con Fientje, un incontro di due destini che ha tanto il sapore della resa. Ma, nonostante il generale senso di perdita che accomuna tutti i personaggi, Spetters è tutt’altro che un film a tesi. Come in Fiore di carne e Kitty Tippel, lo sguardo di Verhoeven nobilita anche il melodramma più scontato, che libero dagli accorgimenti e distinguo borghesi approda ad un realismo psicologico e sociale di dolorosa e splendida efficacia.
Prima di chiudere vale la pena notare come a questo punto della sua carriera Verhoeven abbia attraversato i più diversi generi, dalla commedia surreale al melodramma, dal film bellico al dramma storico, rimanendo sempre fedele a sé stesso. Il genere per il regista olandese è da sempre un palco di partenza, un insieme di strumenti con i quali mettere in scena in vesti diverse le stesse ossessioni. Spetters non fa eccezione, anche se per la prima volta nella carriera di Verhoeven si guarda apertamente al cinema americano, percepito anzitutto come immaginario popolare e catalogo di situazioni e personaggi. Nonostante la disavventura con Star Wars Verhoeven è ad un passo dall’approdo in terra di Hollywood, e Spetters rivela chiaramente come il suo sguardo si stia interessando a certe forme di spettacolo, che compaiono nel film come desideri e riferimenti degli stessi personaggi. Spetters si muove tra La febbre del sabato sera e Il selvaggio, ma il legame nasce anzitutto nelle azioni dei giovani olandesi messi in scena, che vivono tra i poster di John Travolta e la pelle borchiata di Marlon Brando. Il cinema americano come il richiamo di una sirena, dentro e fuori la finzione del film, un immaginario che Verhoeven dimostra già di saper controllare e manipolare a piacimento, facendolo implodere con uno sguardo privo di inibizioni e ipocrisia, forte di un’umanità carnale, empatica, mai moralista.