Dossier Paul Verhoeven / 12 - L'uomo senz'ombra
All'ultimo rapporto con Hollywood, Paul Verhoeven confeziona per la prima volta un film efficace ma tendente al vuoto, fedele ad alcune delle sue ossessioni ma privo di una personalità forte.
Curioso che sia proprio un film sulla scomparsa del corpo (hollow man, letteralmente uomo vuoto) l’ultimo confronto con Hollywood di Paul Verhoeven. Con L’uomo senz’ombra infatti il rapporto tra il regista olandese e il sistema del blockbuster sembra arrivare al punto di non ritorno; un cinema da sempre così body, così esposto ed ossessionato dalla dimensione carnale e istintuale dell’essere, che si confronta in antitesi con il venir meno della materia visibile. Ma a ben vedere il potere acquisito dall’ambizioso Sebastian Caine, l’invisibilità agli occhi del mondo, di colleghi, di ex amanti, diventa il meccanismo d’innesco per l’emersione di una violenza finora nascosta.
E qui torniamo in un campo familiare, perché da sempre il cinema di Verhoeven, profondamente politico in quando libero da ogni inquadramento borghese e moralismo dell’immagine, ha messo a confronto l’animalità dell’essere umano con le strutture sociali e culturali atte a contenerne gli istinti. Da questo punto di vista L’uomo senz’ombra diventa allora l’occasione ideale per sottolineare l’esplosione erotica e violenta permessa dal venir meno delle inibizioni e del controllo. Il brillante scienziato interpretato da Kevin Bacon passa così dal voyerismo spicciolo alla violenza carnale, dal dispetto acrimonioso all’omicidio. Ma se il venir meno delle barriere comportamentali ci mostra un Verhoeven alle prese con i suoi temi più importanti, il risultato finale de L’uomo senz’ombra è comunque quello di un film frenato, inibito, tanto sul piano narrativo quanto, soprattutto, su quello espressivo.
Verhoeven qui decide di abbracciare le logiche di Hollywood senza quell’approccio critico e personalistico che ne ha fatto uno dei registi stranieri più importanti e consapevoli. Difficile ritrovare nel film la sferzante satira politica di RoboCop o Starship Troopers, o altrimenti la brillante riflessione sulle superfici e i feticci del cinema propria di Basic Instinct o Showgirls. L’uomo senz’ombra si rivela esattamente quello che la confezione promette di essere: un buon cinema di genere girato con maestria ma privo del tocco più personale e prezioso del suo autore.
Fin dal periodo olandese Verhoeven ha giocato con i generi, manipolando le forme canoniche in un confronto diretto con una tipologia dopo l’altra: melodramma, film bellico, adattamento in costume, cinema giovanile o fantascienza. Il rispetto per questi elementi è sempre stato massimo, il risultato fedele alla tradizione interna al genere ma anche rivitalizzato, rinverdito, potenziato da uno sguardo irriverente e anarchico. Di quest’approccio L’uomo senz’ombra sembra essere l’epitaffio, il punto di non ritorno dopo una lunga parentesi hollywoodiana fatta di film che hanno saputo gestire con profonda intelligenza il confronto con l’industria. Qui è allora il cinema stesso di Verhoeven che rischia di farsi corpo vuoto, feticcio artificiale sorretto da un meccanismo illusionistico altamente tecnologico, qualitativamente sorprendente, ma troppo attento a catturare la patina più superficiale e immediata dello sguardo. Il corpo ridotto a feticcio e superficie lubrica proprio di Basic Instinct evapora qui sotto i colpi di una tecnologia invadente, occultante.
Oltre queste considerazioni L’uomo senz’ombra non è soltanto cinema di genere in cerca d’autore, è un gioco di svelamento che ad oggi ci sembra più familiare del previsto, più vicino per come rilancia la tradizione dell’uomo invisibile in un meccanismo ludico che ha nella sparizione del corpo attoriale il suo perno centrale. Uno dei temi chiave del blockbuster di oggi è del resto il venir meno del corpo, dell’icona, a favore di una CGI sempre più espressiva, spettacolare, pervasiva. Uscito nei primi giorni del 2000, L’uomo senz’ombra è uno dei primi film tecnologici così attenti al concetto di (in)visibilità, di presenza scenica, di costruzione filmica astratta scevra di quell’apparato fisico di cui certa Hollywood sembra sempre più impaziente di liberarsi.