Dossier Steven Spielberg / 4 - Lo squalo
Lo squalo è un vero e proprio esperimento laboratoriale su cui Spielberg, consapevolmente o meno, opera una sorta di rianimazione sulle modalità narrative e rappresentative della New Hollywood.
Sotto molti punti di vista Lo squalo è un film di fantascienza. Immerge lo spettatore sin dai titoli di testa dentro una soggettiva impossibile che attraversa un mondo alieno. Steven Spielberg si muove nel buio degli abissi, sostituisce la macchina da presa con lo sguardo della bestia e rende visibile l’invisibile. È un occhio che uccide le abitudini spettatoriali, ricostruendo una grammatica che cambierà per sempre la fruizione su grande schermo e la stessa industria cinematografica. In un colpo solo nascono il blockbuster e il cinema postmoderno nell’accezione di Laurent Jullier, ovvero di “un cinema che ha lo scopo di suscitare nello spettatore pure sensazioni, fino a una sorta di dolce ebbrezza, di leggera vertigine”.
Gli almanacchi ci dicono che nell’estate del 1975 Lo squalo diventa il film di maggior successo della storia del cinema. Di fatto esiste un prima e un dopo il film di Spielberg. È una rivoluzione che interessa pubblico, strategie di marketing, linguaggio, modalità produttive. Dopo il peplum, il western e il cinema di guerra, Hollywood si ritrova improvvisamente tra le mani un nuovo tipo di kolossal: il film concerto, che sempre Jullier preferisce ricondurre storicamente all’uscita del primo Guerre stellari in dolby surround nel 1977, ma che in realtà vede il suo modello originario proprio ne Lo squalo.
In termini di generi cinematografici il film è apertamente diviso in due sezioni distinte: una prima parte horror, scandita prevalentemente dal fuori campo e dalla notte, e una seconda d’avventura dove a emergere è la luce, l’esposizione del mostro, l’apertura frontale allo spettacolo. Questa dicotomia netta tra buio e luce, l’horror e l’avventura, rivista oggi sembra rappresentare lucidamente un attraversamento politico ed estetico tutto interno al cinema americano degli anni ’70.
In questo senso Lo squalo è un vero e proprio esperimento laboratoriale su cui Spielberg, consapevolmente o meno, opera una sorta di rianimazione sulle modalità narrative e rappresentative della New Hollywood, disseminando implicitamente tutti gli indizi necessari per raccontare un cambio di rotta del Sistema. È come se il film fosse la linea di congiunzione tra il pessimismo sociologico e spirituale de L’Esorcista e l’esplosione ludica e sinestetica di Guerre stellari.
Laddove la prima ora mette in scena un’umanità minacciata dall’ignoto, passiva, senza alcun tipo di difesa nei confronti di un pericolo primordiale sconosciuto e ineluttabile, la seconda ribalta le forze in campo, con i tre protagonisti maschili che si mettono alla caccia del Male per estirparlo. Ecco che Lo squalo arriva a raccontare neanche troppo metaforicamente la riscoperta – molto americana – di una nuova frontiera da rianimare. Un orizzonte cinefilo da ridisegnare attraverso il successo, il riscatto generazionale di una new wave che decide di passare all’azione e di filmare quasi esclusivamente l’azione. Il film da metà in poi subisce una trasformazione netta nello stile e nel suo ritmo interno: dalla suspense passiamo all’epica, con la musica di John Williams che di conseguenza abbandona la cupezza del famoso leitmotiv che accompagna le uccisioni del predatore per abbracciare un ampio respiro sinfonico di matrice quasi wagneriana. Qui Spielberg riprende dai suoi lungometraggi precedenti (Duel, Sugarland Express) la propensione alla velocità, depurandola però delle angosce moderniste da roadmovie settantesco per connotare l’immagine e il set di un respiro atemporale, mitologico, con veri e propri intervalli di sospensione in mare aperto. Emergono due punti di riferimento immediati: la letteratura di Melville da una parte, il cinema di John Milius dall’altra. Se i riferimenti letterari a Moby Dick sono più che evidenti nell’ambientazione marittima, nell’ossessione per la caccia, nel rapporto uomo-natura e nella doppia similitudine balena-squalo e Acab-Quint, quelli al cinema di Milius – che firma l’eccezionale monologo di Quint sulla US Indianapolis – si fanno più sfumati ma estremamente rilevanti nelle soluzioni musicali e nel modo mai ampiamente analizzato con cui il film ritrae l’amicizia virile.
Martin Brody è l’eroe poliziotto che deve mettersi in gioco e difendere da esponente modello della middle class la comunità/famiglia. È però un corpo neutro che deve imparare a nuotare, entrare nello spazio mondo del mostro per superare un trauma. È un padre/fanciullo e il suo percorso sembra ripercorrere le tappe di un ritardato coming of age rivissuto in età adulta. È molto spielberghiano in questo e riflette su di sé la progressione verso l’agire, di cui – abbiamo visto – è permeato tutto il film.
L’inerzia di Brody oscilla però costantemente tra due poli opposti che sono rappresentati da Quint e Hooper. Sono loro, insieme allo squalo, le forze motrici. Se il primo rappresenta una figura arcaica e, appunto melvilliana, il secondo è la modernità. Hooper è l’alter ego di Spielberg, l’antitesi al vecchio mondo. È l’uomo di città, lo scienziato che prova a misurarsi con la bestia (Hollywood?) attraverso la tecnologia. Il Tempo nel 1975 decide di non aspettare più il cinema del passato. Per questo dei tre l’unico a soccombere è Quint. Ed ecco che un giorno scopriamo che Lo squalo è (quasi) un manifesto programmatico.