Penetrare nella poetica di un autore è quasi sempre percorso iniziatico faticoso e accidentato. Questa banale constatazione è tanto più valida quando si tratta di comprendere l’opera di un regista come Jia Zhangke, a sua volta inscritta in una cinematografia di non facile lettura come quella cinese. All’interno di questo territorio – di cui cinefili e critici occidentali hanno quasi sempre una cartografia lacunosa, quando non la ignorano del tutto –, Jia è certamente uno degli interpreti più originali e radicali.
Con 24 City (Ershisi cheng ji), in concorso per la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2008 e passato decisamente sotto il radar di critica e distribuzione, Jia giunge ad un punto di sintesi seducente quanto precario sul magma della propria inconfondibile poetica. Il regista di Xiao Wu e Still Life (Sanxia haoren) trae le conseguenze di una ricerca da sempre caratterizzata da una singolare dialettica tra cinema a soggetto e documentario, che ha portato i due “modi” cinematografici a dialogare in modo originale all’interno dei singoli film. Still Life, ad esempio, è stato sviluppato contemporaneamente ad un altro film (che potremmo chiamare documentario, per quanto il termine sia oggi quanto mai limitante), Dong. Quest’ultimo è una singolare riflessione sul rapporto tra pittura, cinema e popolo, e si intreccia con la storia e le ambientazioni di Still Life al punto da costituire una sorta di dittico con quest’ultimo. La stessa cosa si può dire del piccolo documentario In Public rispetto al film a soggetto Unknown Pleasures.
Prima di tornare a 24 City, è il caso di fissare alcune coordinate. Il cinema di Jia nasce nell’alveo del cinema indipendente cinese, che si è sviluppato come alternativa e necessaria ribellione agli studi cinematografici statali negli anni Ottanta e Novanta. Cinema a basso costo, critico e radicalmente altro rispetto al cinéma de papa rappresentato dai registi della cosiddetta Quinta Generazione – quella di Zhang Yimou e Chen Kaige, per intenderci. Alle scenografie sontuose, al turgido melodramma e all’esotismo di questo cinema, Jia e gli altri hanno opposto uno sguardo decisamente iconoclasta e attento alle istanze del realismo (degli ambienti e psicologico) e del presente.
La posta in gioco è la memoria e la storia. La memoria: necessità di venire a patti con amnesie e reticenze, di costruire nuovi miti e trovare narrazioni capaci di reggere alla prova di una società e una cultura che, nel corso di una generazione, si è trasformata completamente. La storia: distillare sogni e promesse di un passato ormai straniante che solo il cinema può inquadrare in nuove cornici di senso. Per dirla con Svetlana Boym: da una parte la nostalgia ristorativa, ossessionata dal nostos e dalle grandi narrazioni coerenti e gloriose; dall’altra la nostalgia riflessiva che tematizza l’algos e le fratture, le aporie e i balbettii della memoria e dell’identità. La scommessa di Jia, che attraversa la sua intera filmografia, è la seguente: rendere conto di un passato indicibile e tuttavia ingombrante, al punto di assorbire il presente e rendere anche la più stretta attualità un evento sorpassato e scivoloso. La terra scompare sotto i piedi dei suoi personaggi, travolti da una forza che li risucchia in avanti e li condanna ad essere cristalli di passato o vittime del benjaminiamo angelo della storia. Di qui la peculiarità dello sguardo del regista: sguardo insistito, che cerca di fissare un presente ineffabile con lunghe inquadrature oggettive a distanza. Ossessione del cinema orientale, dirà chi frequenta il cinema di Tsai Ming-liang e Hou Hsiao Hsien. Ma in Jia l’obiettivo è parzialmente diverso. Il punto di partenza è l’osservazione esterna e asettica in stile documentario che tuttavia, come ha giustamente scritto Jiwei Xiao, è impercettibilmente imbricata con un impulso alla finzione che rivela l’umanesimo dell’immagine. Di qui i silenzi, l’effetto tableau vivant che caratterizza molto del suo cinema. Di qui la ricerca lirica di un linguaggio universale della memoria che non ha molti equivalenti, a livello estetico, nella cinematografia mondiale.
Il lettore perdonerà questa lunga, ma necessaria, introduzione. Perché 24 City può essere letto esclusivamente nel contesto storico e culturale di una cinematografia ossessionata dai temi sopra descritti e dalla lotta per riconquistare il passato. Tanto più che l’evento intorno al quale il film è costruito – la dismissione di un grande stabilimento industriale nell’ovest della Cina –, per quanto sentito dal regista, va inteso più come il necessario ancoraggio da cui prendere le mosse per un discorso di natura universale. Evento simbolico di una rivoluzione sociale di portata epocale. Come si è detto, il film è una curiosa commistione di documentario e finzione e si concentra sulle storie di uomini che hanno vissuto o lavorato in una delle grandi industrie statali di epoca maoista, in procinto di essere demolita e sostituita da un quartiere residenziale di lusso: 24 City, appunto. Il linguaggio dell’opera è costituito da interviste, riprese del lavoro in fabbrica e della sua progressiva dissoluzione e vari inserti, come poesie, citazioni e schermo nero. Il dettaglio non indifferente è che quattro delle nove interviste sono di invenzione del regista e recitate da attori professionisti.
Un corto circuito della memoria, insomma. Se, da un lato, la memoria è in sé lacunosa ed ellittica, dall’altro è possibile ricostruirla, ingegnerizzare una versione artificiale. Non necessariamente una memoria falsa e mendace: non è questo l’obiettivo di Jia. Le storie sono tutte verosimili, tutte già sentite migliaia di volte per chi bazzica la Cina e conosce i problemi della più grande classe operaia del mondo. Storie comunque generiche, che sono state preferite, in fase di selezione, a quelle più personali o tragiche, a dimostrare che il regista vuole che guardiamo quello che c’è dietro lo schermo più del contenuto delle interviste. Un meta-film, dunque? Certamente 24 City è anche questo. Un’opera che indaga sugli interstizi della memoria e del linguaggio del cinema e che fa delle accensioni liriche e dei fallimenti della comunicazione (le inquadrature impossibilmente statiche e artificiali, i silenzi che mettono in forse la resistenza del racconto, le incursioni poetiche e i sottili giochi cinefili) il vero oggetto del film. Il cambio di proporzione in favore della componente documentaria è in questo senso uno sviluppo naturale per Jia, qui libero di sperimentare con una pluralità di linguaggi, storie e psicologie che era precluso al cinema di personaggi più tradizionale. Interessante, in questo senso, osservare come la memoria sia evocata in questo film rispetto a quelli precedenti. La memoria che coesiste al presente del film è fatta di promesse non mantenute, rimorsi, tragedie familiari, solitudini. Il passato non è giudicabile né rappresentabile se non nelle sue apparizioni oggettuali – vecchi slogan, buoni per il cibo risalenti agli anni del razionamento alimentare, costumi dell’Opera di Pechino. Il frammento è il morfema fondamentale di un cinema che supera le tradizionali distinzioni di genere e giunge così alla sintesi tra passato e presente, al punto che persino le interviste assumono i connotati della reminiscenza, del ricordo evocato per libera associazione. Quella del tempo è una quarta dimensione dell’immagine che Jia ha estratto da centinaia di ore di girato ed interviste. Metodo faticoso e testardo di lettura del presente in filigrana, che ha peraltro imposto al regista la scelta del formato digitale, l’unico sufficientemente agile per cogliere un presente che sfugge da tutti i lati.
L’esperimento di Jia prosegue con il successivo I Wish I Knew, realizzato in occasione dell’Expo di Shanghai e simile a 24 City per linguaggio e obiettivi. Si tratta di un’opera parzialmente irrisolta, indice di una messa in discussione inevitabile per un regista indipendente che sta tentando di dialogare con un pubblico sempre più vasto. La memoria è sempre al centro della scena, anche se in questo caso l’obiettivo è più circoscritto – raccontare Shanghai e la sua indefinibile anima. Le interviste, qui, sono tutte reali: semmai sono gli intervistati stessi ad essere come diafani, sospesi nel tempo, come la vecchia gloria del cinema di Hong Kong o la figlia di Fei Mu, uno dei più grandi registi cinesi del passato. Una storia inevitabilmente globale, quella di Shanghai: ed ecco che il cinema di Jia si distacca nuovamente dal ristretto recinto urbano e istituzionale (il film è commissionato dall’autorità governativa, dopotutto), per giungere a nuovi approdi e nuovi azzardi linguistici. Ma questa è un’altra storia, un’altra memoria.