Sulla scia di Truffaut, Godard Rivette e Rohmer, anche nel cinema di Philippe Garrel, come afferma Roberto De Gaetano, l’amore è nella forma dell’incontro, che “sottrae il pensiero ad ogni ricognizione: non è e non può divenire oggetto di conoscenza né di sapere, perché è ciò che accade per la prima e unica volta e non si può ripetere”, un trovarsi che è “anche fin dall’inizio un perdersi”. Ecco, il suo essere “fuori tempo”, la straordinaria “inattualità” del cinema di Garrel – di colui che Serge Daney negli anni Ottanta definiva il “figlio segreto del cinema francese” – stanno anche, e forse soprattutto, in questa rottura, vertigine silenziosa, inevitabile scollamento trattenuto in se stesso, quasi soffocato, che si fa forma, atto poetico e politico, ma al contempo, gesto inconcludente e inconcluso, oltraggiosamente utopico. Garrel, nell’intersecazione e nello strabismo di vita e finzione, nello sconfinamento, filma l’inabissamento come fosse un riflesso, un’ombra sul muro, filma uomo e donna negli interstizi di senso, in quel “mentre” che si è già annullato in un’aderenza necessaria, un appiccicarsi tanto astratto quanto lieve ai corpi, ai volti.
Corpi e volti. E fantasmi (tanti): come invenzioni, approdi, ritorni, riappropriazioni. Come l’amore che si fa fantasma, fra ossessioni e inquietudini, passato e presente, segni pervicacemente impressi su un immaginario e un privato, un vissuto affettivo, a confluire nei territori di un unico grande racconto.
Fantasmi. E quindi (anche) l’amore e la morte dentro lo stesso discorso, nel medesimo gesto, nella stessa immagine, anche se (o, anzi, proprio perché), come racconta il regista, “il cinema non ci restituisce le persone di cui parliamo, produce lo stesso smarrimento che si prova svegliandosi da un sogno”. L’amore come spettro visivamente negato in J’entends plus la guitare (1991), spettro ritualizzato in Innocenza selvaggia (2001), appare, è immagine di donna in uno specchio (in uno schermo?) nel bianco e nero intransigente de La frontiera dell’alba (2008), in concorso a Cannes 61, film non definitivo, – del resto già nel titolo è inscritta come dolce ingerenza l’ipotesi di un “dopo” , un altro giorno, un altro tempo, magari un altro luogo – eppure a suo modo dolorosamente terminale, che disperatamente va ora a includere ed assorbire l’assenza, nella visione di una visione (di una visione, e ancora …). Un film-gorgo, dunque, frattura e insieme paradosso tragico, pulsione in forma asettica, angosciata e tenera perversione, ennesima collisione di cinema e biografia, tra la superficie e il mondo oltre i bordi del quadro, qui per forza più incontrollata, quindi più violenta, feroce. Conflitto, qui, a lungo condannato alla cristallizzazione, al congelamento, alla impossibilità della deriva, costretto a fare quindi de La frontiera dell’alba un film-limbo, fino alla fenditura del finale, che si fa potentemente scarto e infrazione.
François (Louis Garrel), fotografo, e Carole (Laura Smet), attrice, si incontrano. Monocorde l’uno, cangiante e fragile, capricciosa e incerta, l’altra. Ma la legge del cuore è identica a quella dei “tergicristalli”, afferma ignaro un personaggio del film, amico di Carol, secondo cui ogni coppia compie lo stesso movimento delle spazzole per pulire i vetri dell’auto: nello stesso tempo una si avvicina all’altra ma questa si allontana. François e Carole si separano in seguito al ritorno dall’America del marito di lei. La donna poi, di nuovo sola, cerca il suo amante ma inutilmente, e in poco tempo si svuota sempre di più, fino a morire. Lui intanto ha conosciuto un’altra donna, sono in procinto di sposarsi e aspettano un bambino. Ma all’improvviso Carole ritorna, è un fantasma, è bellissima, come prima, però ora non ha più dubbi, è sicura, insidiosa, e vuole che François stia con lei, per sempre. Appare, svanisce e ricompare. L’uomo tenta di resistere, ma non può, non ce la fa. Alla fine cede. Decide. Pochi istanti e lo schermo è tornato nero, privazione, di nuovo assenza.
Algido e destrutturato, impalpabile e funereo, eppure stranamente “vivo”, nervoso, La frontiera dell’alba si pone come ennesimo tassello, indomita, irriducibile ripetizione di un fare cinema che è slancio perenne, istinto e urgenza tradotti in scrittura di corpi, registrazione di palpiti e respiri, lacrime e vuoti, storie minime, quasi inconsistenti di personaggi che invece “esistono”, che si fanno immagini da un “poeta – scrive Ghezzi – sì, ottuso, magnificamente ottuso e basta. Perché queste nascite indagate di amori o di piccoli soprassalti di desiderio, di piccole captazioni di sguardo, sfumature tattili, ombre tra il collo e i capelli e l’attaccatura del braccio ci sembrano ultime manifestazioni di un mondo e di un sentire pronti a interrompersi per sempre in un attimo indifferente o casuale”. E poi rinascere, nel prossimo film, E poi…